Rapporto DIA 2016: le mafie al passo con i tempi
Nel venticinquesimo anno di attività, la Direzione Investigativa Antimafia ha presentato al Parlamento il rapporto relativo al secondo semestre 2016
“Le mafie sanno sempre essere se stesse e sanno adeguarsi al mutare dei tempi e delle condizioni. Esse hanno compreso l’articolazione del potere nel nostro Paese e oggi i poteri locali sono diventati i loro interlocutori privilegiati”. Queste le parole del presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, durante un convegno sul contrasto alle mafie del 2015. Parole che oggi risuonano sempre più attuali. La conferma arriva dall’ultimo rapporto presentato dalla Direzione Investigativa Antimafia (DIA) al Parlamento relativo al secondo semestre 2016.
La DIA nasceva venticinque anni fa con la legge n. 410 del 30 dicembre 1991 e non è un caso che, proprio in quei giorni, si chiudeva il maxiprocesso di Palermo 3, con i giudici della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione che stavano dando corpo ad una sentenza che, con i suoi 19 ergastoli e 2.665 anni di carcere, rappresenterà una delle pietre miliari della storia giudiziaria repubblicana, cristallizzando l’esistenza della mafia ed affermando il principio della struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra. In quegli stessi giorni veniva istituita la Direzione Nazionale Antimafia (DNA).
Queste le risposte che lo Stato stava dando sul fronte politico, giudiziario e investigativo alla sanguinosa scia di sangue che la mafia siciliana si era lasciata alle spalle dal dopoguerra in poi e che cosa nostra aveva e avrebbe perpetuato
In questo clima di tensione a DNA e la DIA furono chiamate a intervenire. Un contributo che si poneva non solo sul piano investigativo, ma anche su quello della conoscenza e di una sensibilizzazione dei cittadini, fondamentali per emancipare le coscienze ed estirpare alla radice l’omertà mafiosa.
Venticinque anni fa, la consapevolezza che aveva dato vita ai decreti istitutivi del 1991, fu l’espressione di una importante stagione riformista del Paese. Si voleva cambiare pagina rispetto a un passato, culminato nel periodo delle stragi.
Ma torniamo a oggi. Un salto negli anni caratterizzato ad un’evoluzione delle mafie (è il caso di parlare al plurale) e da una progressiva “professionalizzazione” del modus operandi delle stesse.
Ai primi tre posti della relazione ci sono Sicilia, Calabria e Campania, seguite da Puglia, Lucania, Lazio regioni in cui sono state registrate caratteristiche non nuove dell’agire mafioso: l’organizzazione familistica, fondata su legami indissolubili e dai quali è difficile allontanarsi (si veda la questione della criminalità minorile, fenomeno che ha le radici proprio nel nucleo famigliare) e la “strategia dell’inabissamento”.
Due costanti che permangono nei sodalizi di famiglie antagoniste che si spartiscono il territorio: è su queste che si basa ancora oggi l’architettura interna per esempio di Cosa Nostra. Un elemento di continuità che ha consentito ai boss, una volta usciti dagli istituti penitenziari, di tornare ad essere leader incontrastati.
Altro elemento evidenziato dalla relazione consiste nel core business di queste organizzazioni, da sempre coincidente con il traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, riciclaggio e usura.
Ma l’Italia non è il solo Paese caratterizzato dalla presenza mafiosa: le cosche si propagano, come un germe che infetta l’intero corpo, oltre i confini nazionali, senza soluzione di continuità. Un potere che vede nelle collusioni e nell’omertà la propria linfa vitale. Un potere che ha dato origine a quella che viene definita “mafia imprenditrice” sottolineando il “salto di qualità” reso possibile grazie ai legami tra le varie organizzazioni, a livello locale e internazionale e al vortice di impunità e omertà che ha avvolto interi settori, dai tradizionali business illeciti ai cosiddetti “colletti bianchi”, indispensabili trait-d’union dei gruppi criminali.
(di Anna Piscopo)