Editoriale – Ritornare al futuro
Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’editoriale del Filosofo Giuseppe Carcea
E’ di recente pubblicazione una raccolta di scritti postumi di Z Bauman: “La Vita in frammenti”, che sono la Prosecutionis di : “Postmodern ethics” 1995, tradotto in Italia con il titolo: “ Le Sfide dell’etica” 1996. Questi scritti, se da una parte percorrono una traiettoria che – a nostro modesto avviso – è ormai nota: la crescente necessità di domanda etica in un Mondo che si trasforma a ritmi un tempo impensabili, per altri versi, propone una sfida coraggiosa e, se ci è concesso, inattuale: il Personalismo. La domanda che sorge è questa: come rendere possibile –in un’epoca di forte disincanto – il ritorno a valori dimenticati o svuotati di credibilità come la proposta di Bauman tende a sottolineare? Si pensi alle famose “radici cristiane “ del Vecchio Continente, che sono l’humus del Personalismo stesso. La qual cosa acquista ancora più fascino perché la proposta del sociologo polacco si mantiene in equilibrio instabile tra: pensare, vivere e abitare, sulle sabbie mobili della “terra di mezzo” che è l’epoca postmoderna. Accogliere una “morale senza etica”, che è espressione del relativismo etico e, allo stesso tempo, ancorare i vari punti di vista all’azimut del valore della Persona e dell’alterità, non sembra cosa da poco. Da dove cominciare? Ebbene, qualcosa era iniziato a cambiare nello scenario del dibattito filosofico-politico nell’ultimo quarantennio, si pensi al famoso saggio, veramente Epoch-making di J. Rawls: “A Theory of Justice”, una Teoria della giustizia, del 1972. Con notevole coraggio e straordinario intuito, Rawls, ha dettato al pensiero Liberale una nuova agenda, detronizzando il valore di Libertà, da sempre il vessillo dei liberali, per accogliere il valore “spurio” di Giustizia. Arrivando ad affermare che una società che dimentichi di avvantaggiare i meno avvantaggiati non può essere definita società civile. Insomma, J. Rawls, decide di porre la questione della Giustizia in primo piano, facendo slittare la questione della Libertà dalla posizione di valore assoluto a quella coordinata, se non addirittura subordinata alla Giustizia. Rawls, non ha mai ritenuto che i criteri di Libertà e Giustizia siano identificabili con il valore a loro accordato nelle “sfere calde” della opinione pubblica e della formazione del consenso. Con grande intelligenza, il filosofo americano ha cercato di superare il vecchio schema diadico fra Teoria e prassi, formale e sostanziale, e con un esperimento originale – meglio noto come “velo di ignoranza”- ha proceduto a misurare un eventuale consenso sulla scelta dei valori in questione, ricorrendo a un esperimento immaginativo in cui ha voluto dimostrare che persone poste nella condizione di ignorare il loro status sociale, invitate a scegliere i principi etici che dovrebbero garantire loro pace e affermazione, propenderebbero per la Giustizia e la Libertà. Interessante e convincente l’esperimento di Rawls ha fatto parlare di sé al lungo, se non fosse altro per il quasi contestualismo del suo esperimento sul consenso. Possiamo pensare che le persone che vivono nei contesti abbiano, grazie all’esperimento di Rawls, avuto la possibilità di vedere sé stessi come in uno specchio, riconoscersi e sentirsi rappresentati? Perché Rawls è ricorso a una immagine e non si è servito di esempi concreti, forse ci sono esperimenti che possano farci sentire esseri umani meglio di quanto crediamo di apprendere ricorrendo al solito mantra della concretezza, del “Noi” , della soggettività incarnata? Per cercare di dare una risposta a questo interrogativo dobbiamo abbandonare, per un po’ questa analisi e rispolverare alcune pagine di eccezionale drammaticità che segnano la riflessione di F. Nietzsche, il quale su questo argomento ha assunto una posizione a dire poco inquietante. Alludiamo a quel Giallo rappresentato dall’annuncio della morte di Dio, con il quale Nietzsche ha dato luogo a uno degli ultimi capitoli della sua filosofia, prima dell’abisso che seguirà a questo tema in cui regnano sovrani la volontà di potenza e il Nichilismo. L’evento della morte di Dio ha un che di surreale, l’atmosfera è all’altezza di alcuni film di Fellini, infatti ad annunciare il luttuoso evento è Zarathustra, il quale osserva la penosa esibizione di un funambolo, ossia la condizione dell’uomo e dell’Umanesimo in bilico, senza Dio, quindi alla fine. Nietzsche, con sguardo beffardo ci avverte che non esistono strade sulle quali muove i suoi passi il popolo di Dio, quell’umanità in marcia nella lunga lotta della redenzione verso la rinascita. Dio è morto e quindi anche l’uomo, si svela così l’inganno della Fede, che spalanca quell’abisso in cui l’umano, Dio, la natura e le cose non si succedono secondo una processione dominata dal senso, ma dall’illusione, dall’inganno. Nessun ordine del creato, nessuno scopo regna sovrano né dall’inizio dei tempi né alla loro fine, anzi la Terra e non il Mondo sono l’unico ricettacolo che accoglie il disincanto, in cui, come dice il poeta: “In me disciolta ogni forma”.
Naturalmente, dobbiamo chiederci: come è possibile che alla morte di Dio segue quella dell’uomo? Le Chiese sono aperte e l’uomo continua a esistere, ma, allora, in che senso l’uomo muore insieme a Dio? La risposta non è che sotto i nostri occhi, infatti Nietzsche punta la sua scommessa su ciò che non riusciremo più a guardare, ossia l’immagine-specchio del volto di Dio sul quello di ogni uomo. Infranto lo specchio, svanisce l’inganno della coscienza. Quindi che ne è del senso della esistenza se non può essere blandita dalla consolazione che c’è sempre “Un Mondo dietro il Mondo?”, quindi un’altra opportunità di rinascita? Basta accogliere il dolore con Amor fati, accettandolo senza cercare nessuna “scappatoia”. Detto ciò, dobbiamo constatare che il fallimento dell’obiettivo di Nietzsche è argomentabile in almeno due passaggi, il primo: La distruzione dello specchio, in cui si raccoglie in immagine la coscienza dell’Altro, lascia il posto a ciò che secondo Nietzsche avrebbe dovuto essere il Neuzeit, il Tempo nuovo, che per ironia della sorte si presenta nelle vesti di un altro uomo, anche se questi è l’Oltreuomo, ossia Zarathustra. Chi è Zarathustra, l’immagine dell’uomo? L’altra questione riguarda il concetto di Amor fati, che è un’altra forma di redenzione della e dalla vita stessa? Cosa possiamo imparare da queste lezioni, probabilmente l’argomento più importante risiede nella riscoperta del senso della Storia, ricominciando, come ha fatto Rawls dal realismo che è nell’immagine. Il Cristianesimo non è l’unica religione depositaria di simboli e immagini, la differenza da altre religioni risiede nella assoluta originalità dello gnosticismo divino-umano che lo costituisce. Nasce così, quella squisita sensibilità in cui Dio e l’uomo illuminano la strada di un percorso da compiere insieme, una strada in comune con l’Altro, abbandonando la quale si smarrisce quel senso della relazione, della direzione, e dello scopo che il nostro tempo cerca di riconquistare in maniera scomposta ed errabonda, abbandonato, come lo Zarathustra nietzscheano, alla furia di una autodeterminazione nichilista e distruttiva.
(di Giuseppe Carcea )