Amarcord: Vincenzo Paparelli, 40 anni da una lezione mai imparata
Non è necessario essere appassionati di calcio per conoscere il nome e la storia di Vincenzo Paparelli, il tifoso laziale ucciso allo stadio il 28 ottobre 1979, centrato in un occhio da un razzo sparato dalla curva sud ed arrivato in curva nord dopo un viaggio di oltre 200 metri. A 40 anni esatti dalla tragedia, il mondo del calcio sembra aver appreso poco da una morte assurda ed ancora oggi agghiacciante.
28 ottobre 1979 – 28 ottobre 2019: 40 anni da una domenica di sangue, terrore ed incredulità allo stadio Olimpico, 40 anni dalla morte di Vincenzo Paparelli, il tifoso della Lazio che perse la vita prima dell’inizio del derby di Roma, quando un razzo lanciato da tre ragazzi presenti in curva sud oltrepassò a grande velocità l’intero stadio, conficcandosi nell’occhio sinistro di Paparelli, seduto accanto a sua moglie e presente allo stadio quasi per caso, con la tessera prestatagli da suo fratello. Il tutto alle 13 di una domenica come tante altre, in una Roma squarciata dagli anni di piombo, dalle lotte fra ragazzi di destra e di sinistra, dagli accoltellamenti e le sparatorie in strada, dalle botte, dalla striscia di siringhe sui marciapiedi e nei parchi, con l’eroina a creare zombie e ad uccidere giovani e giovanissimi come neanche la guerra aveva fatto. Vincenzo Paparelli era un ragazzo normale, un lavoratore di 33 anni, meccanico, dedito al lavoro 6 giorni su 7, poi la domenica, fatta per stare con la famiglia, l’amata moglie e i due splendidi figli, ma fatta anche per seguire l’altro suo grande amore, il calcio, la Lazio.
Quella domenica, Vincenzo Paparelli non voleva andarci allo stadio, un po’ perchè Roma da un paio di giorni era vessata da una forte pioggia, un po’ perchè la famiglia premeva per andare a pranzo a Valmontone (paesino a metà fra Roma e Frosinone) a casa dei nonni. Meglio ascoltarlo alla radio, allora, quel derby dei poveri fra una Roma ancora troppo piccola per puntare allo scudetto e una Lazio della quale sta svanendo il ricordo dello scudetto del 1974. Ma quella mattina, così all’improvviso, su Roma spunta il sole, uno degli ultimi caldi dell’anno, il cielo diventa d’incanto così terso che la voglia di stadio si fa sempre più forte: Vincenzo Paparelli si fa prestare l’abbonamento da suo fratello Angelo, mentre sua moglie lo accompagna acquistando un biglietto di curva nord che all’epoca costa poco più di duemila lire. Un paio di panini incartati e chiusi in un sacchetto, un bacio ai figlioli e via verso l’Olimpico, sperando che quella Lazio non più tanto forte ma combattiva possa avere la meglio su una Roma che con Nils Liedholm appena arrivato in panchina sta crescendo con l’obiettivo di arrivare allo stesso livello della Juventus e delle milanesi.
La storia, anche per chi il calcio lo segue poco e niente, è nota: Paparelli e la moglie entrano in curva nord intorno alle 13, poco dopo dalla gradinata opposta parte un primo razzo che sorvola lo stadio e si spegne al di fuori. I tre ragazzi in curva sud ne hanno preparati tre, acquistando una particolare attrezzatura che serve addirittura per le segnalazioni a distanza in mare; per comprarla ci vorrebbe il porto d’armi, ma il negoziante che gliel’ha venduta il giorno prima non l’ha chiesto, si è fidato di due ragazzi poco più che ventenni e di un minorenne, forse la logica del guadagno facile, forse la superficialità di chi pensa “tanto cosa vuoi che succeda“. Il secondo razzo viene esploso alle 13:15, la sua gittata attraversa il campo e termina la sua corsa nell’occhio sinistro di Vincenzo Paparelli che si accascia a terra accanto allo sguardo sgomento della moglie (che nel tentativo di estrarre il petardo rimarrà ustionata alla mano) e a quello dei presenti. Nessuno dimenticherà mai le atroci immagini del sangue del trentatreenne romano che mai riprenderà conoscenza, nonostante il tempestivo arrivo dell’ambulanza ed il rapido trasporto all’ospedale Santo Spirito: alle 14 il suo cuore cesserà di battere ed a spiegare la drammaticità dell’evento ci penseranno le parole del chirurgo che proverà a salvargli la vita con tentativi tanto animati quanto inutili. “Neanche le ferite di guerra sono così devastanti”, dirà il medico, mentre intanto Roma e Lazio daranno vita ad un derby surreale, giocato in un silenzio tombale dopo che la curva nord aveva chiesto il rinvio della gara, placandosi solo dopo l’intervento ravvicinato del capitano biancoceleste Pino Wilson, e terminato 1-1.
Le condanne per i tre responsabili saranno lievi, il ragazzo che materialmente sparò il razzo mortale, Giovanni Fiorillo, latitante per quasi un anno, avrà una pena di 6 anni e 10 mesi per omicidio preterintenzionale e morirà il 24 marzo 1993, ironia della sorte, a 33 anni, come Paparelli e dopo aver trascorso la sua latitanza chiamando in continuazione Angelo Paparelli, giurando e spergiurando che quel giorno allo stadio non voleva colpire per uccidere. E’ successo, però, e Vincenzo Paparelli è morto, 40 anni fa, esattamente 40 anni fa. A lui la città di Roma ha dedicato un parco a via Cornelia (tenuto purtroppo oggi in condizioni di abbandono e degrado), all’ingresso della curva nord una targa ne ricorda la tragica scomparsa, Lazio e Roma disputarono qualche settimana dopo la sua uccisione una partita amichevole allo Stadio Olimpico a squadre miste, da una parte i calciatori delle due formazioni nati a Roma, dall’altra quelli nati nel resto d’Italia, con incasso devoluto alla famiglia Paparelli.
Ma cosa è rimasto oggi a 40 anni di distanza? Una lezione simile, impartita a tutta Italia, avrebbe dovuto insegnare rispetto, pietà e tenerezza, far riflettere sul senso della vita, sull’opportunità di trasformare uno stadio nel luogo di una mattanza. Ha insegnato poco, invece. Vincenzo Paparelli è stato il secondo morto da stadio in Italia dopo un tifoso salernitano ucciso nel 1963 da un proiettile vacante durante i tafferugli di una gara contro il Potenza. Ma da allora una lunga scia di morte ha consumato gli stadi italiani: Marco Fonghessi, ucciso il 30 settembre 1984 da tifosi milanisti dopo Milan-Cremonese; Nazzareno Filippini, morto durante gli scontri fuori dallo stadio Del Duca di Ascoli Piceno dopo Ascoli-Inter del 17 ottobre 1988 e prossimo alle nozze; Antonio De Falchi, tifoso romanista morto a causa di un attacco di cuore dopo essere stato assalito e malmenato da sostenitori del Milan prima di Milan-Roma del 4 giugno 1989; Vincenzo Spagnolo, accoltellato all’esterno dello stadio Luigi Ferraris di Genova prima di Genoa-Milan del 29 gennaio 1995; Ciro Esposito, freddato da un colpo di pistola a pochi passi dallo stadio Olimpico di Roma nell’imminenza della finale di Coppa Italia fra Napoli e Fiorentina del 3 maggio 2014, fino a Daniele Belardinelli, tifoso interista investito ed ucciso durante gli scontri successivi ad Inter-Napoli del 26 dicembre 2018.
Tanti morti in nome del calcio, ovvero in nome del nulla, niente che possa giustificare il sacrificio di un essere umano. Ma non solo, perchè la morte di Vincenzo Paparelli in 40 anni non ha impresso maturità e dignità a numerosi beceri, convinti che dietro la parola goliardia potessero ridere di una disgrazia. Troppe le scritte contro Paparelli che hanno imbrattato muri e facciate di Roma: “10, 100, 1000 Paparelli“, o “Morto un Papa..relli se ne uccide un altro“, “Spengo la luce e accendo il razzo“, e tante altre. Frasi oscene, che forse non andrebbero mostrate o ricordate, ma che invece a volte, come oggi, val la pena far tornare a galla, per dimostrare quanto la superficialità spesso prenda il sopravvento sulla realtà: una scritta idiota come quelle appena riportate alla luce è il frutto della mano di qualcuno che pensa forse di far ridere, di apparire divertente rileggendosi, non comprendendo che anche chi quel 28 ottobre del 1979 decise di sparare quei razzi da una curva all’altra dello stadio Olimpico, in fondo, voleva soltanto giocare, scherzare, magari ridere. Gli stessi cervelli che quando in curva si sente esplodere un petardo applaudono esclamando “Bum“.
Fermatevi a riflettere, pensate alla vita di Vincenzo Paparelli che è stata stroncata a 33 anni senza un motivo, mentre seduto allo stadio azzannava un panino con la mortadella in attesa di veder giocare la sua squadra del cuore. Pensate a sua moglie che ha perso il compagno di vita senza poterlo neanche salutare. Pensate al figlio Gabriele che nel 1979 aveva 7 anni e che ha passato la gioventù in sella alla sua vespa alla ricerca di quelle scritte infamanti su suo padre, cancellate ogni volta da una bomboletta spray conservata sotto la sella. Pensate a tutto questo, affinchè la storia non restituisca solo semplice memoria, ma sia l’insegnamento per creare un mondo migliore, perchè il mondo non è un’entità astratta, bensì il risultato della convivenza fra gli uomini.
di Marco Milan
Marco Fonghessi, Nazzareno Filippini, Antonio De Falchi, Vincenzo Spagnolo, Ciro Esposito, Daniele Belardinelli: 6 morti “da stadio” in quarant’anni. Media: uno ogni sei anni e mezzo.
Alla luce di questa semplice statistica si evince che gli stadi sono tra i luoghi più sicuri d’Italia (assai più di strade, discoteche, cantieri, ecc…).