La Casa del pane
In capanne vive l’uomo, afferma Holderlin, ogni capanna è la Casa del pane, direbbe M. F. Sciacca, nel forno dell’Eucaristia ha lievitato l’experimentum fidei e da allora il corpo umano, quello della Chiesa o dello Stato sono il carnato di questo esperimento.
L’incarnazione è un mistero e qualora non fosse mai stata il luogo di incontro tra Dio e l’uomo o, se lo è stata per un certo tempo, questo “qualcosa” ha cambiato radicalmente il nostro modo di pensare; abbiamo imparato a riconoscere e custodire nell’immagine del volto, in un frammento, quel tutto che è l’Altro. Questo Heredium, è un’avventura dello sguardo e dell’ascolto, quel “dare corpo e figura” a un cammino che è divenuto l’universo in cui viviamo. L’universo è l’Unum in diversis, quel modo di essere unici e diversi allo stesso tempo, quel luogo in cui siamo insieme per invito di qualcuno, l’abisso dell’anima che condividiamo, i nostri difetti che rispecchiano i vizi di molti, quella mancanza di giudizio su qualcuno che non ci fa più giudicare nessuno. Unum in diversis, quel tutto, sicuramente impensabile senza la relazione con i frammenti che lo compongono, nel qual caso, sarebbe il totum, quindi un totem, un feticcio, un simbolo; all’inverso, il frammento senza il tutto sarebbe una semplice scheggia che nulla sa di sé. Sapere di sé non è mai una ricerca della verità a partire da ciò che verità non è. Per il pensiero greco la verità è l’essere al di là del divenire, per il pensiero cristiano il centro della verità è la salvezza, “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. ( Gv. 14,1-12) Quindi, la domanda rivolta all’Altro è sempre una risposta in un dialogo mai chiuso, pertanto, l’uomo viator è colloquio aperto e custodito, in guisa di immagine, nella memoria.
L’immagine dell’Altro è l’attesa di una risposta che non smette mai di assillarci e che mantiene aperto il dialogo stesso. Il Novecento ha preso, radicalmente atto, dell’esilio tra queste due dimensioni polari in occasione di un evento doloroso: il processo di Norimberga, in quella circostanza, si è reso noto che il male non è nella natura dell’uomo o nelle “Malebolge”, bensì nella cultura. I gerarchi nazisti hanno commesso atrocità indicibili, affermando di avere obbedito a degli ordini ricevuti, Hannah Arendt ha definito ciò: “La banalità del male”; ossia, quel vivere nell’indifferenza la quale non è l’atteggiamento di uno sparuto novero di singoli, ma un vero e proprio indottrinamento, una Bildung di cui la società amministrata è la scuola. Burocrazia, scienza e tecnica sono l’ossatura della società di oggi, “tristi scienze”, a esse la gente comune, ingenuamente, pone la domanda di senso sul valore che la verità ha per la vita, addirittura, in cosa sperare, come edificare un mondo migliore. Heidegger, risponderebbe con una celebre affermazione: “La scienza non pensa”, nel senso che non si cura delle conseguenze che le proprie decisioni e azioni potrebbero avere per l’umanità. La banalità del male continua a essere l’atmosfera in cui viviamo, in quanto l’indifferenza caratterizza il clima eticamente neutrale, in cui germoglia il disimpegno. L’epoca in cui l’indifferenza era figlia del famoso edonismo reganiano: individualista e carrierista, ha progressivamente lasciato il posto a una trasformazione radicale in cui è tramontata anche la meritocrazia, pertanto, non è più necessario avere delle qualità – Musil, docet -, cercare il successo o la ricchezza, da bruciare nel “ falò delle vanità”. Ciò che a molti sembra necessario è riuscire ad avere un posto nel limbo anestetico della “società del passatempo”, nella quale vive la “Generazione “Otaku”, come, Hiroky Azuma, ci ricorda. Intere generazioni che vegetano immersi in un’atmosfera ludica, fatta di videogiochi, scommesse, contatti che creano un clima di erotomania non necessariamente finalizzata al soddisfacimento pulsionale e sessuale, quanto piuttosto alla creazione di un’atmosfera di eccitamento diffuso e profuso, come condizione necessaria per sentirsi vivi, spesso, purtroppo, a scapito della propria incolumità; surrogando, quasi completamente i rapporti umani reali.
La sopravvivenza in questa situazione è garantita dalla trasformazione del capitalismo che non è più implementato nella logica della produzione e del consumo, ma in quella della distribuzione. Desiderare significa avere in tempo reale l’oggetto desiderato e, così di seguito, “altri e altri ancora”, per non cadere in depressione. Questi argomenti meritano una riflessione approfondita, ma ci accingiamo a concludere, constatando che la realtà cambia – e questo è un bene – il problema è non sapere in quale direzione, ma a questo ci pensa la Globalizzazione, che non a caso è stata definita da Papa Francesco: la madre dell’indifferenza. Le tempeste della Globalizzazione sono prodotte dalla navigazione via web e rappresentano una sorta di talassocrazia spuria, che non è il potere che direttamente dal mare invade la terra, ma via etere, invade il Mondo e la Terra, ammantandoli di oblio e rischiando di trascinarli nell’abisso. Amare il Mondo, senza dimenticare la sorella Terra, luoghi, allo stesso tempo, visibili e ideali in cui si gioca l’ultima partita di un incontro tra civiltà che devono coabitare, salvaguardando la propria specificità e l’ambiente naturale in cui si riproducono. Cosa possiamo di questa tormentata epoca, forse che si sente il bisogno di decisioni che mettano in scena la nostra umanità, quella coltivata nel tempo e non scordando, per esempio, la battaglia che con le nostre forze abbiamo opposto in questi tragici mesi al “chiuso morbo”, con il buon senso, misura, coraggio, chiarezza, coesione, solidarietà, senso di responsabilità. In questa confusa global age, allo stesso tempo, edenica e infernale, qualcosa si agita sul fondo facendoci sperare che il mondo di oggi, rappresentato dalla galassia Gutemberg in “veste” Social, diventi promessa di un futuro migliore. Non è facile, ci rendiamo conto, soprattutto visti gli esiti, spesso violenti e incivili, con cui la web community ama comunicare. Siamo convinti, tuttavia, in un cambiamento, una progressiva, quanto responsabile, presa di coscienza di abitare in una nuova “Casa del pane”, un nuovo Locus mundus; magari, da custodire con cura e chiarezza di intenti, nonché impegno, affinché, i Social siano il luogo nel quale ogni disperso frammento comunicativo, ogni diaspora, ogni solitudine, anche se “dorata” che non smette di farci sentire esiliati, diventi un luogo che riflette “l’immaginario buono” quello dell’ascolto dell’Altro. Possiamo pensare che, anche in altri angoli della Terra, questa eco di alterità sia un “virus di civiltà” capace di “contaminare” le coscienze facendole reagire e, magari, generare le “difese immunitarie” in forma di protesta con cui, popoli sottomessi a un capitalismo selvaggio e a una politica dispotica, siano in grado di contribuire a ribaltare il tremendo ordine della globalizzazione, questo “universalismo-feticcio”, dissimulatore della diaspora sempre più terrificante tra ricchi e poveri, signori e servi.
( di Giuseppe Carcea )