Quando politica e religione abbracciano la repressione. Il caso omofobia in Russia
di Simone Lettieri
C’è un caso emblematico nel mondo che permette velocemente di capire come un’atmosfera di repressione attuata da Stato e religione possa colpire duramente anche la mentalità e gli atteggiamenti di un intero popolo nei confronti di una minoranza. Quel caso si chiama Russia. E la minoranza, in questo caso, si chiama comunità gay.
L’ultima notizia è di pochi giorni fa: con 443 sì e 0 no la Duma russa ha approvato una legge che vieta adozioni internazionali da parte di coppie dello stesso sesso o di single che vivono in paesi che riconoscono, in qualsiasi modo, le coppie omosessuali. E’ solo l’ultimo di una lista di provvedimenti clamorosi che tentano in ogni modo di limitare, emarginare, quasi annullare del tutto la libertà delle persone GLBT: basti pensare alla legge che proibisce di parlare dei temi legati all’omosessualità in pubblico, entro i confini dei Paesi che costituiscono la grande federazione sovietica.
Senza usare mezze misure, possiamo dire che in Russia l’omofobia è diventata legale.
Ci sono due elementi che vanno presi in considerazione: da un lato la politica, lo Stato, rappresentato da quel Vladimir Putin, dittatore senza essere considerato tale, che dopo aver limitato la libertà di stampa con repressione e dure condanne, da tempo ha orientato le sue forze per combattere l’omosessualità. Dall’altro lato la Chiesa Ortodossa, una delle più dure, bigotte, tradizionaliste e concettualmente fasciste fra le Chiese della galassia del Cristianesimo.
Un mix esplosivo, che come conseguenza ha portato quello che di peggiore può accadere in un contesto di repressione: l’appoggio della popolazione. Perché in Russia, secondo gli ultimi sondaggi, quasi l’85% si dichiara contrario ai matrimoni gay, il 16% dichiara che i gay vadano “isolati” e il 5% addirittura “sterminati”. Più del 20% dei cittadini russi ritiene l’omosessualità sia una malattia da curare.
Numeri che fanno orrore, ma che non dovrebbero sorprendere, se consideriamo che provengono da un Paese che fino al 1993 considerava l’omosessualità un reato e fino al 1999 una malattia mentale. Un Paese soggiogato e represso da una politica dura, che ha vissuto le tenebre del comunismo: Stalin, nel 1933, fece inserire nel codice legislativo penale l’articolo 121, che vietava i rapporti omosessuali: probabilmente lo fece per ingraziarsi la Chiesa Ortodossa e rafforzare la legittimità del proprio governo, ma resta il fatto che lo fece, e i risultati di simili provvedimenti ricadono sulla popolazione per generazioni intere.
Senza considerare la religione, molto forte e presente in Russia, tanto che sorrido beffardo quando sento dire che in Italia il Vaticano ha un’eccessiva presenza nella politica italiana. Una religione, quella ortodossa, che ha sempre considerato l’omosessualità una “pericolosa piaga sociale”, che ha sempre indottrinato le mentalità dei giovani russi fin da piccoli, che ha sempre appoggiato, favorito, sostenuto leggi repressive nei confronti della comunità gay.
Insomma, la storia si ripete: Putin è lo Stalin degli anni 30, Vladimir Michajlovič Gundjaev è il Patriarca di oggi, ma che non ha fatto i conti col passato. E quando politica e religione, due aspetti fondamentali per una società, si uniscono nel reprimere, il risultato è esplosivo.
La Russia gay soffre, fra giornalisti licenziati perché fanno coming out (come Anton Krasovsky) e Gay Pride vietati, fra leggi razziste e mentalità omofoba diffusa, tutto questo fra l’assordante e clamoroso silenzio della Comunità Europea, un silenzio desolante, vergognoso, triste.
Ci vorranno anni affinché le cose cambino, decenni, forse di più, forse di meno: tutto dipende da quelle due istituzioni, Stato e religione, di qualunque credo essa sia, che hanno il compito di guidare istituzionalmente e spiritualmente i cittadini di uno Stato, non certo di reprimere con violenza le minoranze che ne fanno parte e che sono parte integrante della democrazia e della civiltà umana.
I gay hanno il sacrosanto diritto di vivere liberamente la loro vita secondo i loro liberi intendimenti senza che alcuno, stato o chiesa, li coarti. Ma da qui a chiedere il diritto ad adottare ce ne passa un bel po.