Downton Abbey: ipnotico serial in veste melò
di Beatrice De Caro Carella
A meno di due settimane dalla fatidica serata degli Emmy, l’autunno caldo della TV americana è già partito. Ma se oltreoceano la stagione è ufficialmente iniziata solo da pochi giorni, in Italia persino la TV in chiaro si mostra già pronta e decisa a stare al passo. Se Mediaset sta addosso al fenomeno Shameless, infatti, dopo la giocata d’anticipo della Rai su Under the Dome, immaginiamo sia stata una lotta senza quartiere per tre delle migliori serie al momento in circolazione. A finale di partita, il punteggio può dirsi equo: Rai 2 conquista l’ottimo Bates Motel, Rai 3 sceglie l’acclamato The Newsroom, ma Italia 1 tiene per sé il succulento Hannibal (2 milioni e mezzo di telespettatori di media a episodio). Tutti contenti dunque. Persino Rete 4 che, senza fornire una data, conferma comunque il ritorno autunnale della serie UK più acclamata degli ultimi anni: Downton Abbey, alla sua terza stagione in Italia e quarta, correntemente, negli USA.
Nell’attesa dell’estate però SKY Diva Universal, va segnalato, ha messo a segno un colpo gobbo, mandando in onda in anteprima assoluta la prima stagione italiana integrale della suddetta. Esultano i fan, rimasti vittime di quella prima stagione “mutilata” mandata in onda da Rete 4 – mini-serie d’una mini-serie – Sky Diva e Downton portano a casa, per l’occasione, anche il prestigioso premio Plinius dell’Ischia Film Festival ed è così che in attesa degli Emmy (ben 12 candidatura all’attivo) si riaccende l’interesse.
Sceneggiato e ideato con cura dal premio oscar Julian Fellowes (miglior sceneggiatura originale per Gosford Park di Robert Altman) Downton Abbey inscena la vita della aristocrazia anglosassone, ritratta all’alba del suo viale del tramonto. I Crowley sono visti in parte attraverso gli occhi d’una servitù devota, ligia nel rispetto delle norme della società di classe; in parte attraverso la loro stessa versione di sé, aristocratici di sangue dalla mentalità a volte tenacemente tradizionalista ma di buon cuore ed alti ideali; in parte attraverso lo sguardo minoritario dei subordinati che avvertono nell’aria l’avvento del nuovo secolo e scalpitanti anelano a quel sovvertimento del comportamento sociale che di li a poco sarebbe avvenuto. Gli anni sono quelli del secondo decennio del secolo breve, tra l’avvento del primo conflitto mondiale e il dissesto globale – economico, umano, finanziario e sociale – a seguire, ma la scrittura di Fellowes è attenta a cogliere nella scomparsa del Titanic, evento col quale non a caso si apre la serie, l’inizio della fine d’un era. Un presagio di sventura, un monito per l’aristocrazia mondiale, rimasto ad ogni modo inascoltato. Ed infatti la tragedia oltreoceano sfiora i Crowley sì, ma non li turba fino in fondo, mentre l’avvento della guerra forse li piega e ne smussa anche le ruvidità, ma non ne scardina ancora i principi morali saldamente “tradizional-vittoriani” che ne guidano l’agire, ne determinano il pensare e ne condizionano il sentire.
L’ingessatura emotiva della quale i personaggi sono dunque prigionieri è tuttavia perfettamente bilanciata da una recitazione controllata, manierata eppure insospettabilmente accattivante. Fioccano nomi di prim’ordine d’altronde, dalla candidata all’oscar Elizabeth McGovern (Ragtime) alla pluripremiata Meggie Smith passando per diversi ottimi regular come la veterana TV Siobhan Finneran nei panni dell’impenetrabile Miss O’Brien.
Nonostante la patinatura melò della regia su molti dei colpi di scena, spesso prevedibili (vista anche l’ingente sotto-trama amorosa della serie) gli slanci emotivi da rilettura contemporanea del romanzo alla Jane Austen sono banditi, in favore d’una maggiore aderenza storica ai lenti mutamenti culturali dell’epoca dell’ambientazione. Un controsenso, sembrerebbe, perché il medium televisivo e il formato miniseriale, se di melò o d’una sua filiazione si tratta, per abitudine indotta chiamerebbero pathos, il dramma che esplode, la passione degli animi che prorompe e fa precipitare gli eventi. Invece nulla di tutto ciò accade in Downton Abbey, ed è proprio questo il punto di forza che vale al network britannico ITV e a Fellowes tutte le loro sudate candidature: l’aver intuito che lo spettatore “frustrato”, comunque lo si renda tale, è la migliore arma che una serie possa vantare. Trascinato infatti dal lento procedere degli eventi, dal moto ambiguo della dimensione emotiva dei personaggi, cangiante al punto da non consentirgli mai di decifrarne con certezza la vera natura, lo spettatore “frustrato” continuerà a tornare, fedelmente. Nel nostro caso, attendendo paziente (non senza una certa dose di maligna trepidazione, lo si confessa) che la tempesta del ventunesimo secolo si abbatta finalmente sull’Europa primo-novecentesca con tutta la sua vera devastante potenza.