The Americans: in amore e in guerra fredda tutto è lecito
di Beatrice De Caro Carella
Al via questa sera su FOX una nuova serie di marca US, tra gli altri prodotta dall’iperattiva Amblin Entertainment, casa di produzione del nostro beneamato Spielberg. Si tratta di The Americans, serie anni ’80 ambientata ai tempi della guerra fredda, recentemente presentata in anteprima alla 7ª edizione del Roma Fiction Fest.
Siamo di fronte, anzitutto, stavolta a un prodotto dalla genesi sui generis, ideato e in parte sceneggiato dall’ex agente della CIA, docente scolastico ed attualmente scrittore-sceneggiatore e produttore Joe Weisberg. La leggenda narra che, forte della sua esperienza governativa, in tempi non sospetti Weisberg stesse scrivendo il pilota per una serie drammatica dall’impianto spionistico: al centro, una giovane coppia di sposi in missione speciale “a lunga scadenza”, alle prese però con tutte le complicazioni insite in un rapporto di coppia nato per ragion di stato. Suddetto pilota, si racconta, rimane nel cassetto, finché un produttore illuminato avendo letto uno dei romanzi di Weisberg ne ottiene il copione e ne scopre il potenziale. Ecco allora che, un po’ come sempre accade, ovvero quasi per caso, ne nasce una vera serie: incredibilmente ben calibrata nei ritmi, con una selezione musicale “d’atmosfera” degna di nota, recitata meravigliosamente e scritta con ammirevole cura. Il giudizio sembrerà forse troppo entusiastico, ma The Americans è una di quelle serie che prende e lascia con quella voglia un po’ folle di guardare i suoi 13 episodi tutto d’un fiato.
Ma andiamo con ordine, partendo dagli opening credits stavolta, la sigla infatti non può passare inosservata e merita un momento di riflessione. Le note, tanto per cominciare, sono quelle di Dominik Hauser, sensibilità musicale all’ombra di bellissime colonne sonore: da Happy Days ai Muppets, da Perry Mason a La Tata, da Star Trek a Pirati dei Caraibi, Footloose e Anna Karenina e poi ancora True Blood, il vecchio Lois e Clark, il mitico Twin Peaks, Il trono di spade, House of Cards, Homeland, Once Upon a Time. Inoltre il montaggio delle immagini che si susseguono rapidissime tra loro, quasi frustrando chi volesse coglierne tutti i riferimenti, non potrebbe essere più analogico: colosso occidentale e orientale, USA e URSS che si fanno la lotta a colpi di icone. Manifesti, simboli, immagini di repertorio, miti culturali, velleità storiche, complotti e false propagande si alternano sullo schermo in split-screen facendo della verità dell’una il riflesso delle menzogne dell’altra. Due imperi del male, come demonizzò Reagan la sua titanica avversaria, che si specchiano uno nelle esasperazioni di potere e controllo dell’altro, facendosi si che in fondo il confine tra bene e male risulti ben più sbiadito e incerto di quanto la storia occidentale non abbia raccontato.
Di questa ambiguità connatura alla lettura degli eventi si fa chiaramente portavoce Weisberg, che non a caso parla dei suoi anni alla CIA senza celare remore. La sua coppia di protagonisti, Elizabeth e Philip, agenti del KGB infiltrati sul suolo americano allo scopo d’estorcere informazioni riservate, è composta da “due cattivi” per i quali tuttavia chi guarda non può far altro che parteggiare, perché The Americans è uno spy-game ma anche la storia d’un rapporto di coppia: controverso, perché nato su basi inautentiche, ma non più complesso da gestire d’una qualsiasi relazione che poggi su tanti anni di convivenza, piccoli e grandi risentimenti, desideri di fuga, sentimenti mai confessati, inaspettati bisogni di sostegno. Elizabeth e Philip, due bravissimi Keri Russell e Matthew Rhys, si cercano e si respingono, si appoggiano e proteggono tanto quanto altrettanto rapidamente finiscono per tradirsi, disprezzarsi e odiarsi per poi ancora nuovamente infine cedere all’autenticità, quantomeno di sentimenti, che il tempo, col tempo, ha donato al loro matrimonio “di stato”.
La sottotrama relazionale non è però mai ingombrate, piuttosto si sviluppa in sordina e senza mai intralciare i ritmi della serie, per altro strutturata nei suoi tempi, più che come un action movie, come un thriller psicologico dall’incedere incalzante anche se sostenuto. Certamente al punto giusto da far si che lo spettatore torni puntuale e avido.
Per quanto riguarda le musiche, una selezione d’hit d’epoca assolutamente impeccabile, queste giocano un ruolo chiave anche nei loro testi, spesso di commento all’azione, specie nei momenti di maggiore intensità drammatica. Quanto alla ricostruzione d’ambiente, c’è in The Americans, uno straordinario equilibrio visivo, che rende gli anni ’80 vividi e al tempo stesso mai prepotentemente kitch, come altrove sono stati ricostruiti. Sigilla il tutto, al termine d’ogni puntata, una sinfonia di violini che rapisce. Stavolta la mano che dirige e scrive è quella di Nathan Barr, altro grande nome, tra Grindhouse, Hostel, L’ultimo esorcismo, Cabin Fever, True Blood ed Hemlock Grove.