Formazione e lavoro. In Italia due mondi paralleli

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di Emiliana De Santis

Quello che sconvolge non sono i numeri della disoccupazione, tristemente noti e a cui siamo purtroppo abituati. Lascia invece senza parole il fatto che, stando a un’indagine condotta da McKinsey, ben il 47% dei datori di lavoro italiani lamenti il fatto di non riuscire a trovare sul mercato capitale umano formato in base alle reali esigenze dell’azienda. Pur ammettendo che ci sia una forte componente recriminatoria e non poca responsabilità delle imprese stesse nel mismatching tra lavoro e formazione, il dato resta comunque allarmante.

Il rapporto della società di consulenza – “Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione” – presentato il 13 gennaio a Bruxelles, non punta il dito solo contro l’Italia ma analizza una serie di Paesi europei mettendo ben in evidenza quanto sia grave e persistente il tasso di disoccupazione nell’Unione, secondo solo a quello di Medio Oriente e Nord Africa. Queste ultime due realtà tuttavia, sono giovani politicamente ed economicamente e quindi il numero è spiegabile. Non è lo stesso per l’Europa dei 27 che rimane ancorata a vecchie forme di occupazione e mercato del lavoro nonostante l’evolversi del mondo circostante. Trinceramento delle posizioni per chi già vi fa parte, immobilismo delle carriere e dei meriti e blocco all’ingresso dei giovani. C’è da notare inoltre che in Italia, Grecia, Portogallo e Gran Bretagna è cresciuto esponenzialmente il numero di studenti che scelgono corsi collegati alla manifattura o abbandonano gli studi in favore di professioni ad essa collegate quando invece la manifattura europea – se non per la qualità e il valore aggiunto del prodotto – è un settore fortemente in declino, provato dalla assoluta competitività dei grandi numeri di Cina, Vietnam, Turchia e Corea del Sud, dove la realizzazione dei beni usufruisce della larga scala e del bassissimo costo del lavoro. La manifattura si basa ad oggi sul valore aggiunto dell’innovazione e della specializzazione, della creatività e del design che non l’abbandono ma la prosecuzione della formazione stimola e perfeziona.

Se si pensa che, contemporaneamente, coloro che continuano gli studi lo fanno invece in settori desueti per la corrente richiesta professionale oppure completano molto tardi una formazione troppo astratta per essere spendibile – e qui sta il grosso della responsabilità delle aziende – ben si capisce quanto sia netta e preoccupante la mancanza di comunicazione tra scuola (intesa nel suo complesso con anche l’università) e azienda. Italia, Portogallo e Grecia sono poi gli stessi Paesi dove molti dei giovani dichiarano di non aver proseguito gli studi per ragioni economiche, in cui è più basso il tasso di giovani che lavora mentre frequenta l’università e quelli in cui gli squilibri regionali e tra aree geografiche, nello specifico italiano sull’asse Nord – Sud, sono molto evidenti. In questo sono illuminanti i numeri dell’ultimissimo rapporto di Alma Laurea: il tasso di occupazione dei giovani laureati al Nord è del 52,5% al Sud del 35 nonostante si tenda, più nel Meridione che altrove, a proseguire gli studi oltre il primo triennio, in tanti casi proprio perché non si trova occupazione. Per di più il 45% dei laureati che trova lavoro al Sud continua la stessa attività che aveva avviata prima della laurea, al Nord è il 32. Pur ritenendo importante la formazione a qualunque età e livello, ed indipendentemente da ciò che si decida di fare, si capisce che i laureati di una certa zona del nostro Paese non sono preparati né stimolati dal sistema educativo né utilizzano gli studi come chiave di volta né, tantomeno, sono sostenuti da un vivace tessuto imprenditoriale in grado di attrarre a sé giovani talenti per rendere produttivo lo slancio innovativo.

Qui sta l’errore della nostra scuola e delle nostre aziende, entrambi universi chiusi, muti, ripiegati su se stessi. Lo strumento dei dottorati industriali o dell’apprendistato come gli Istituti Tecnici Specializzati sono ancora un miraggio riservato a pochi eletti che, sostenuti dalla famiglia, possono permettersi di entrare sul mercato del lavoro tardi e con una minima retribuzione, per lo più lontano da casa e senza una vera prospettiva (in Italia meno del 46% dei giovani stageur trova un’occupazione, 15 punti in meno rispetto alla media europea).

 

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