The Hateful Eight di Quentin Tarantino: l’anomalo western “giallo-splatter”
Non si avvicina neanche lontanamente al pathos emotivo dei precedenti Django Unchained e Bastardi senza gloria
The Hateful Eight, l’attesissimo film diretto dal regista Quentin Tarantino, è uscito nella sale in versione digitale il 4 febbraio. Per questo suo ultimo lavoro il regista ha espressamente voluto la distribuzione anche su pellicola Ultra Panavison in 77 mm che garantisce una definizione maggiore alle immagini impresse.
Il famoso regista dallo stile “pulp” e dalle formidabile capacità di fondere diversi stili in un unico capolavoro si cimenta nel suo secondo western dopo il successo di Django Unchained.
La narrazione riprende la suddivisione in capitoli, sei in tutto, familiare al pubblico per i film Kill Bill vol. 1 e 2; lo spettatore si accorge però sin da subito che lo stile di questo film si discosta non poco dai capolavori precedenti dello stesso regista.
In questa pellicola sono i lunghi dialoghi ad essere i veri protagonisti, infatti appare lampante la volontà di Tarantino di “costringere” lo spettatore a prestare maggiore attenzione allo snodo della trama di quanto non abbia mai fatto nei film precedenti. Guai a perdersi una sola parola, il rischio è quello di tralasciare un particolare fondamentale per la totale comprensione della vicenda. Questo arduo compito per lo spettatore è reso ancora più difficile a causa della durata del film, che con i suoi ben 187 minuti vince il primo premio per il film più lungo girato da Tarantino.
La sensazione di trovarsi in un western “anomalo” ci è data anche dall’ambientazione. Lo spettatore gode solo fugacemente dello splendido e suggestivo paesaggio circostante (le riprese sono state fatte in Colorado) surclassato, quasi immediatamente, dall’ambient interno de “L’emporio di Minnie”.
E’ a questo punto che ci rendiamo conto di ritrovarci in un tentativo mal riuscito di un giallo alla Alfred Hitchcock.
Da questo momento in poi tutti i personaggi sono “intrappolati” in un gioco di ruoli che li costringereà ad eliminare gli avversari o ad auto-eliminarsi.
L’ironia magistrale usata da Quentin Tarantino nei precedenti film viene qui quasi del tutto annullata. Poche le battute veramente sferzanti e pochi i significati sottesi.
Il carattere e la psicologia dei personaggi non viene mai realmente approfondito, tanto che è addirittura impossibile per lo spettatore riconoscersi o parteggiare per l’uno o per l’altro.
Solo verso la fine emerge uno dei segni distintivi dei film di Tarantino; le scene sanguinarie a tratti splatter, sebbene sottotono rispetto ai cult come Pulp Fiction o lo stesso Django Unchained, per un momento ci ricordano che stiamo vedendo un film del regista pulp per eccellenza.
The Hateful Height non si avvicina neanche lontanamente al pathos emotivo dei capolavori precedenti e il tentativo di “originalità” attraverso il mix di diversi stili fallisce miseramente.
La sgradevole sensazione quando si esce dalla sala è purtroppo quella di aver assistito a un film di Tarantino che faceva la parodia a se stesso, riuscendoci pure male!
La nota positiva di questa pellicola è senza alcun dubbio la musica composta da Ennio Morricone, premiato con un meritatissimo Golden Globe per la miglior colonna sonora e una candidatura ai Premi Oscar 2016.
(di Alice Urbani)