Amministrazioni comunali a guida PD. Le mafie bussano, il partito come risponde?
Da Catania a Roma, passando per Brescello: il PD, primo partito d’Italia, e la questione delle infiltrazioni delle mafie nelle Giunte di centrosinistra
Il germe mafioso continua a insinuarsi nell’intero territorio nazionale. La forza endemica delle mafie penetra, ormai, nei tessuti sociali e istituzionali del Paese, superando l’ormai vecchio immaginario secondo il quale esistano zone che ne sono immuni. La rete che dà forza alle mafie è sta nel coacervo di interessi e affari tra esse e una certa diffusa pars politica capillarmente permeabile.
Da nord a sud, le cronache delle ultime settimane ci raccontano delle presunte infiltrazioni mafiose in diversi Consigli comunali dello Stivale. Come il caso di Catania dove, alla luce dell’inchiesta dell’Antimafia regionale sulle presunte infiltrazioni mafiose in Consiglio comunale, i segretari dei circoli Pd hanno scritto un documento politico nel quale si chiede al partito un “deciso cambio di marcia e di atteggiamento politico”. Nel documento ai vertici locali del Pd si chiede in particolare l’immediata convocazione della direzione o dell’assemblea provinciale del partito per discutere il tema del contrasto alle infiltrazioni della criminalità nelle istituzioni locali.
A scatenare la bufera è stata proprio la relazione della commissione regionale Antimafia inviata al presidente dell’Ars prima, alla commissione nazionale Antimafia e alla Procura etnea poi, nella quale si legge che “esiste un problema di responsabilità politica ed etica a carico di alcuni soggetti presenti in due assemblee elettive di Catania. La Commissione ha accertato che nel caso di tre delle cinque persone indicate, l’ipotesi formulata dalla segnalazione ha trovato riscontro: si tratta di due eletti al Consiglio comunale e di un eletto ad una Circoscrizione”. Da quel momento i dubbi sui consiglieri “sospettati” si sono fatti sempre più forti: la relazione della commissione regionale presieduta da Nello Musumeci ha puntato l’indice contro i consiglieri comunali Riccardo Pellegrino, Erika Marko e contro il consigliere di circoscrizione Lorenzo Leone. A questo proposito si è espresso il vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Claudio Fava, il quale ha affermato che “se fratelli e sodali di noti mafiosi possono sedere impunemente nel consiglio comunale di Catania, distribuiti tra banche di opposizione o di maggioranza vuol dire che in quel consiglio e sull’attuale amministrazione c’è il rischio concreto di un condizionamento criminale”. Per questo, ha dichiarato Fava “chiederò di valutare l’opportunità e l’urgenza di affidare a una Commissione d’accesso i necessari atti ispettivi”.
Un fatto politico prima che giudiziario. Ma sarà ovviamente la Magistratura a verificare se questi esponenti politici e gli altri cinque consiglieri comunali, deferiti alla Commissione e posti all’attenzione della Procura, hanno commesso atti illeciti, sono perseguibili penalmente, hanno maturato le condizioni previste dalla legge per la loro decadenza da incarichi pubblici.
“Sintomi di mafia”, più precisamente della presenza dell’ ‘Ndrangheta sembrano essersi manifestati anche nel comune di Brescello (Reggio Emilia), monitorato da più di un anno da una commissione di accesso nominata per valutare eventuali infiltrazioni mafiose e la necessità di scioglimento dell’ente. Risultato: il Pd di Reggio Emilia ha chiesto ufficialmente le dimissioni di Marcello Coffrini, sindaco di Brescello, non iscritto al PD ma sostenuto dal partito.
“È giunto il momento – ha scritto in una nota il Pd reggiano – da parte del sindaco di Brescello, di rendersi conto che se vuole difendere davvero il paese, le sue dimissioni sono urgenti ed inevitabili”. A suscitare la reazione del Pd, definita da alcuni “tardiva”, sono state le ultime affermazioni del sindaco Coffrini alla stampa locale: aveva detto di non volersi dimettere in difesa del paese e di fare ricorso in caso di commissariamento. Tuttavia, pesano ancora le scottanti parole pronunciate un anno fa dal primo cittadino di Brescello, quando definiva il boss Grande Aracri “una persona gentile, tranquilla e educata” alle telecamere dei ragazzi di Cortocircuito, che hanno prodotto l’ormai famosa video intervista .
In quell’occasione Marcello Coffrini aveva rimesso il suo mandato da sindaco nelle mani della maggioranza in consiglio comunale, passando a Brescello e cavandosela con una sgridata.
Oggi il Pd reggiano chiede agli esponenti del partito nell’ amministrazione di Brescello di togliere il sostegno a Coffrini. “L’impegno del Partito Democratico – hanno scritto – è quello di riconsegnare a loro una fase nuova, scevra da dubbi e da incertezze, lontana dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni che rendono non sereno il clima per i cittadini, le istituzioni locali e le persone che vi lavorano. Serve coraggio. Da una ritrovata condizione di serenità e chiarezza potrà partire una ancor più incisiva lotta alla ‘ndrangheta”.
Così il 30 gennaio scorso arrivano le dimissioni del sindaco, contrariamente a quanto affermato pochi giorni prima in una intervista a “Il resto del Carlino”: “Mi sento un sindaco non indagato, senza procedimenti a carico e sono certo che non li avrò, perché non ho mai fatto niente. Sennò sarei un pazzo a non dimettermi”.
Che vi fossero presenze della criminalità organizzata nell’ambito della speculazione edilizia del reggiano, lo ha confermato anche Angelo Malagoli, ex assessore all’Urbanistica nella giunta di Antonella Spaggiari (sindaco di Reggio Emilia dal 1991 al 2004). Malagoli è indicato come il presunto responsabile del “sacco edilizio” di Reggio proprio negli anni di crescita economica e del boom edilizio. Tra imprese sane e malavitose “segnalai l’inizio del sacco di Reggio, ma la maggioranza non capì”, dichiara Malagoli a “Il resto del Carlino”.
Dice l’ex assessore: “Qualcosa di anomalo lo avevamo notato. Sul mercato dell’edilizia reggiana erano comparsi operatori che prima non c’erano. Alcune erano ditte che facevano le pendolari con Cutro: arrivavano qui, operavano e poi tornavano in Calabria. Altre aprivano e chiudevano nel giro di ventiquattr’ore. Tra il 2002 e il 2006 aumentarono molto gli interventi diretti, realizzabili con la sola concessione edilizia, mentre i piani particolareggiati, sono rallentati. Il sindacato denunciò casi di caporalato e gli imprenditori reggiani dicevano che non riuscivano più a concludere acquisti di aree perché dall’oggi al domani subentravano altri soggetti”. Ma talvolta è più comodo non fare domande per non suscitare sospetti e non essere costretti a vedere o tantomeno a denunciare.
E per finire, non si può non approfondire le responsabilità del Partito democratico nelle vicende di “Mafia Capitale”. Come ha ammesso Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera dei Deputati e, per ora, unico candidato in corso per le primarie del Pd: “Rivendico la mia appartenenza al PD –ha sottolineato Giachetti-. Non ho nessuna intenzione a nascondere le responsabilità del mio partito in mafia capitale, che sono comunque inferiori rispetto a quelle della destra. So che partirò con qualche centinaio di metri di svantaggio. Però vorrei anche dire ai romani che bisogna smettere di guardare dallo specchietto retrovisore e ricominciare a guardare avanti”.
Che la mafia dei colletti bianchi tragga linfa vitale dalla politica, sia a destra che a sinistra, è cosa nota. Ma è poi sui territori, nei nostri comuni piccoli e grandi che questo sodalizio si realizza traducendosi nelle speculazioni edilizie, negli abusi ambientali, nell’abbandono delle periferie ai traffici di stupefacenti. E solo partiti sani, pungolati da un’informazione libera, possono fare da argine al sacco delle nostre città.
(di Anna Piscopo)