Omicidio Regeni, si cerca la verità sulla morte del ricercatore italiano
Giulio Regeni si trovava al Cairo per un’attività di ricerca sui sindacati indipendenti nel nuovo Egitto post-rivoluzionario
Sospetti, dolore e angoscia, ma anche sentimenti di commozione e gratitudine. La morte del giovane ricercatore italiano, Giulio Regeni, ha suscitato reazioni di sdegno nella comunità internazionale, accompagnate dall’elogio per il lavoro che svolgeva con passione, nonostante la consapevolezza dei rischi a cui andava incontro. La sete di conoscenza e il desiderio di raccontare la verità gli sono costati la vita. Giulio Regeni si trovava al Cairo per un’attività di ricerca sui sindacati indipendenti nel nuovo Egitto post-rivoluzionario, un tema scottante in un paese in cui la repressione è ancora all’ordine del giorno e la libertà di espressione è vista come una minaccia da occultare con la disinformazione, la propaganda e la morte.
Le indagini sulla morte di Regeni sono state appena avviate e si tenta, dopo i risultati dell’autopsia, una prima ricostruzione dei fatti. Scomparso il 25 gennaio, nel giorno del quinto anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, che aveva portato alla destituzione di Mubarak e dato inizio alla Primavera Araba, Giulio Regeni è stato fermato nella zona di Giza, forse durante una “retata”, in procinto di prendere la metro per andare ad una festa di compleanno alla quale, però, non è mai arrivato, come ha rivelato un conoscente egiziano amico della vittima. Appresa la notizia della scomparsa, le autorità diplomatiche hanno iniziato le ricerche, contattando le autorità egiziane e in particolare l’Ambasciata italiana al Cairo, mentre via Twitter partiva la mobilitazione per il suo ritrovamento con l’hashtag #whereisgiulio.
Per giorni si è continuato a sperare, ma dal Cairo nessun riscontro. Un silenzio che, con il passare delle ore, faceva preludere al peggio. Il 3 febbraio arriva la notizia della morte. Poche ore dopo il ritrovamento del cadavere si susseguono versioni discordanti sulle cause del decesso. Giulio Regeni viene ritrovato in un fosso, in una zona periferica della città e, secondo quanto riferito dal quotidiano locale Al Watan, sul corpo del giovane erano visibili “tracce di torture e ferite”. Il procuratore egiziano di Giza Hosam Nassar, ha dichiarato che si è trattato di una “morte lenta”, avallando, quindi, la pista della tortura; al contrario, il Ministero dell’Interno egiziano smentiva e parlava di “incidente stradale”. A fugare ogni dubbio sulle cause del decesso è stata l’autopsia, svoltasi nella tarda serata di sabato, rivelando che la morte sarebbe avvenuta dopo quattro giorni di brutali percosse e sevizie che ne avrebbero reso il corpo quasi irriconoscibile. La causa primaria della morte, stando agli ultimi aggiornamenti, sarebbe stata la frattura della colonna cervicale seguita a una rapida torsione innaturale del collo da parte dei suoi aguzzini.
Facile intuire che il suo lavoro accademico gli stesse procurando nemici, come non è azzardato ipotizzare che la sua cattura e le torture inflitte fossero mirate ad arrivare alla rete di contatti che aveva instaurato per portare avanti le sue ricerche. “Testimoni scomodi”, come lui. Il ventottenne friulano, dottorando in Studi mediorientali all’Università di Cambridge, da settembre si trovava in Egitto e conduceva un’indagine “sul campo” per la sua tesi, intervistando attivisti sindacali, oppositori del nuovo governo. Regeni collaborava con l’agenzia di stampa MENA (Middle East News Agency) e scriveva per Il Manifesto firmandosi con uno pseudonimo, consapevole dei rischi che la sua indagine comportava. Il quotidiano, il 5 febbraio, nonostante la diffida della famiglia della vittima, ha deciso di pubblicare il suo ultimo reportage In Egitto, la seconda vita dei sindacati indipendenti, “per offrirlo ai lettori come testimonianza, con il vero nome dell’autore”. È un racconto conciso e puntuale di ciò che sta accadendo nel Paese, dalla crisi del movimento sindacale alle “nuove iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi”.
La situazione sociale e politica dell’Egitto di oggi non sembra tanto diversa da quella pre-rivoluzionaria contro il regime di Mubarak. In un lustro, il Paese è passato prima in mano ai militari, poi ai “Fratelli Musulmani” con l’esperienza di governo del presidente Morsi, finita dopo il colpo di stato del luglio 2013. Da allora al potere vi è un nuovo regime autoritario, presieduto dal capo dell’esercito Abdel Fattah al-Sisi, eletto presidente nel 2014 a stragrande maggioranza (ma con dubbia regolarità). L’instabilità politica si riflette inevitabilmente sulla società civile. Amnesty International, in un rapporto diffuso nel 2015, ha denunciato come il paese sia tornato completamente a essere “uno stato di polizia” con un “livello di repressione agghiacciante” dovuto soprattutto all’applicazione della Legge sulle proteste, in vigore dal novembre 2013, che consente arresti arbitrari e autorizza l’uso della forza anche tra i manifestanti pacifici. A confermare “la crisi sul fronte dei diritti umani” è l’Osservatorio Human Rights Watch, che nel World Report 2016, diffuso a fine gennaio, cita, come minaccia alla sicurezza, “le crescenti torture, le sparizioni, spesso di attivisti politici” e i detenuti morti in custodia per maltrattamenti.
In questo contesto, la morte di Regeni potrebbe rappresentare un “caso politico” non solo per le ragioni che l’avrebbero determinata, ma anche per i rapporti futuri tra Italia ed Egitto. Rapporti bilaterali ottimi, in particolare sul piano economico-commerciale, che rischiano di incrinarsi dopo il brutale omicidio del giovane studente italiano al Cairo. L’Italia chiede verità e massima collaborazione alle autorità egiziane, disponibilità confermata dall’ambasciatore egiziano Helmy per fare luce sull’accaduto ma anche perché, come ha sottolineato l’ambasciatore Massari, intervenendo alla trasmissione In Mezz’Ora su Raitre, “questo caso è seguito dall’opinione pubblica di tutto il mondo” e “un’indagine trasparente e chiara è un’opportunità per l’Egitto stesso di consolidare la propria credibilità come sistema Paese. È nel suo stesso interesse non incrinare questa credibilità”.
Agli appelli diplomatici e all’indignazione del mondo politico, si aggiungono le iniziative della società civile e le dichiarazioni della comunità accademica. Non è mancata la solidarietà ai genitori di Giulio Regeni dal fratello di Valeria Solesin, un’altra ricercatrice italiana morta a Parigi durante gli attacchi terroristici nel novembre 2015. In ricordo di Regeni, tramite una mobilitazione su Facebook, sabato scorso si è tenuta una manifestazione davanti all’Ambasciata italiana al Cairo organizzata dal gruppo The Januarians. Sulla pagina “Rip Giulio” continuano i messaggi di solidarietà e di protesta contro la repressione delle libertà, pubblicati in inglese, arabo e italiano. La MESA, autorevole associazione di studi sul Medio Oriente e sul Nord Africa, ha indirizzato una lettera al presidente egiziano, sottolineando apertamente il “crescente pericolo rappresentato dall’attuale clima politico in Egitto, per tutti coloro che sono impegnati nel lavoro accademico” e “le numerose violazioni della libertà di espressione”. La denuncia della “progressione della repressione di Stato di accademici e studenti” è condivisa anche da Anne Alexander e Maha Abdelrahman, membri della comunità accademica di Cambridge, di cui Regeni faceva parte, autrici di un’altra lettera rivolta al presidente al-Sisi e aperta alla sottoscrizione di chiunque ne condivida i contenuti, inviata al The Guardian, ai media italiani e alle autorità egiziane tramite le ambasciate di Roma e Londra.
Il coetaneo e collega di Regeni, presidente della LSE Italian Society (London School of Economics) ha voluto ricordarlo, nonostante non lo conoscesse di persona, mettendo l’accento sulla dedizione per la ricerca e i sacrifici non soltanto di Giulio, ma anche dei tanti ricercatori per il mondo nei loro percorsi accademici. L’analisi è lucida, il ricordo toccante. La “ricerca accademica è stata assassinata, perché deprivata dell’idea di universitas, di una comunità di studiosi senza confini”, si legge. E ancora, quasi a dare un senso a una morte così atroce e ingiusta: “Terremo Giulio vivo nei nostri ricordi come un esempio di libertà, la libertà che ogni ricercatore deve perseguire e di cui l’umanità tutta necessita per costruire un futuro migliore”.
Fonte immagine: pagina Facebook “Giulio Regeni: vogliamo la verità”
(di Elena Angiargiu)