Società foggiana: in Puglia la mafia più cruenta
La Società foggiana fa affari con lo spaccio di droga e il racket delle estorsioni, grazie anche all’omertà di certi cittdini e certe istituzioni. Il Questore di Foggia: qui 8 commercianti su 10 pagano il pizzo.
“La mafia garganica è l’alterazione strutturale della verità, la costruzione di un mondo falso, fittizio, un trionfo dell’irreale, di una società arcaica che vive i propri rapporti e si dà proprie norme. L’irreale divenuto terribilmente reale. La mafia garganica è un contrasto violento della realtà”. Questo il profilo della mafia garganica designato dal prefetto Domenico Seccia nel suo libro “La mafia innominabile” (La Meridiana, 2011).
Oggi la Puglia torna a far parlare di sé come di una regione in cui è presente una delle mafie più spietate, l’organizzazione criminale nota con il nome di “Società foggiana”. Uno dei sodalizi criminali più cruenti fin dalla nascita anche se priva di un’organizzazione verticistica e di un ampio giro d’affari a differenza dell’ ‘Ndrangheta, di Cosa Nostra e della Camorra. Nonostante tutto, questa criminalità organizzata pugliese, nata tra gli anni Settanta e Ottanta proprio nel territorio foggiano, in parte come filiazione della Camorra, ha ereditato alcuni caratteri arcaici delle mafie tradizionali in un’ottica di innovazione e autonomia di cui ancora oggi vediamo le conseguenze.
Uno dei maggiori canali di approvvigionamento della Società è rappresentato dallo spaccio di droga e soprattutto dalla richiesta del pizzo; “Secondo i nostri calcoli l’80% dei commercianti foggiani paga il pizzo. Ma praticamente nessuno lo denuncia”. Otto negozi su dieci. Cioè tutti. “Omertà, paura, disabitudine alla legalità. Tanto che con la procura stiamo cercando di trovare un modo per accusare di concorso esterno i commercianti che non denunciano il racket. Loro e gli imprenditori edili. Perché qui ogni volta che si apre un cantiere la richiesta di pizzo è automatica”, ha affermato il questore di Foggia Piernicola Silvis. Da settembre a oggi ci sono stati in zona quattro omicidi, otto tentati omicidi e dieci bombe sono esplose davanti ai negozi per costringere chi non paga il pizzo a farlo. Una mafia “impunita” che non teme di colpire in pieno giorno, sicura di potersi celare dietro il solido muro di omertà, costruito mattone dopo mattone con la tacita complicità di una parte di cittadini e delle istituzioni. Una battaglia culturale nella quale, forse, non è ancora tutto perduto, ma che necessita di segnali in controtendenza affinché il crimine sia inteso come un grande problema etico, prima che economico e sociale.
È il caso, l’ultimo di una lunga lista, di Giovanna Parlante, titolare della pizzeria “Mia” in Via del Corso a Foggia. Una donna che ha cercato di opporsi alla mafia quando dei criminali sono andati a bussare alla porta della sua attività proponendo, anzi imponendo, di comprare da loro la mozzarella. Lei lo ha fatto, ma la qualità della pizza si è notevolmente abbassata. Giovanna decide di ribellarsi. Così l’incubo si fa più cupo: le bruciano la macchina, poi tentano di entrare in casa sua. A questo punto la voglia di reagire prende il sopravvento sulla paura e la commerciante foggiana si rivolge alla Fondazione antiracket di Tano Grasso il quale promette unione nella lotta agli abusi della criminalità. “Insieme vinciamo”, ma queste parole, forse un po’ consolatorie, non convincono Giovanna Parlante che inizia a conoscere e a subire l’altra parte della mafia: l’esclusione da parte dei suoi concittadini, l’omertà, l’angoscia della solitudine. L’antiracket le regala una macchina nuova che viene puntualmente ricoperta di sputi. Ma lei ha deciso di non mollare. Come Giovanna Parlante anche Cristina Cucci, titolare di un negozio che organizza eventi e matrimoni, ha ricevuto più di un anno fa la richiesta di pagamento del pizzo, due mila euro al mese. Dall’iniziativa di denuncia di Cristina Cucci è nata la Federazione antiracket di Foggia, di cui è presidente. “Siamo in 15. Ma spero che presto si associno altri 10 commercianti”. Piccoli numeri alimentano il bisogno di speranza che la “legalità del noi” non resti solo utopia.
Tra scetticismo e tentativi di minimizzazione, la criminalità pugliese si è evoluta assumendo i tratti di una vera e propria “mafia imprenditrice”, un salto di qualità reso possibile grazie ai legami tra le varie organizzazioni criminali. La mancata o, troppo debole, azione di denuncia da parte di certe istituzioni a livello locale e più in generale nazionale, ha contribuito a rendere forti le mafie insieme al deficit di corresponsabilità che dovrebbe costituire la spina dorsale di una Democrazia.
Una situazione che ha radici tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi del Novanta, periodo contrassegnato nella provincia di Foggia dall’alto numero di omicidi efferatissimi a danno di molti giovani, spesso per motivi riconducibili a mancati pagamenti di droga o per regolamento di conti tra fazioni opposte di criminali. Ma accanto a questi episodi si registrò un preoccupante aumento di reati quali rapine, estorsioni, incendi, spaccio e traffico di stupefacenti e infine per contrabbando, il quale a fronte di una crescita quadruplicata nel resto della Puglia, nel foggiano si è moltiplicata per sette.
La Commissione Parlamentare Antimafia arrivò per la prima volta nel Gargano nel 1988 e venne accolta in malo modo poiché un’esponente istituzionale disse che a Foggia la mafia non c’era contrariamente a quello che dicono oggi i più alti livelli istituzionali. Ventotto anni dopo, i fatti, le inchieste, gli omicidi, i processi, le condanne dicono che ci sono organizzazioni mafiose a Foggia, a San Severo, nel Gargano, e a Cerignola. Da quel germe sono nate le cosiddette “batterie” che periodicamente si fanno guerra e poi tornano alleate (mai amiche) per spartirsi l’affare principale, le estorsioni. Infatti, alcune delle sei guerre di mala si sono combattute proprio per l’affare del pizzo. Inoltre, in uno dei più celebri blitz antimafia “Corona” (che ha portato a 23 arresti nel luglio 2013, 38 imputati in attesa di giudizio) non una delle 19 vittime di taglieggi si è costituita parte civile. Senza dimenticare che già allora il gip firmatario delle ordinanze di custodia cautelare scrisse come ormai a Foggia la mafia non avesse più bisogno di ricorrere a gesti eclatanti per incassare il pizzo, ma le bastasse un semplice monito, si comprende quanta strada indietro è stata fatta sul fronte della ribellione. Proprio in occasione dell’inchiesta “Corona”, condotta dai carabinieri del Ros di Bari e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari e dalla Procura foggiana, il Comune di Foggia non si è costituito parte civile. Dettagli che fanno riflettere.
Dunque, la mafia garganica, stando ai resoconti giornalistici e televisivi non esisteva, o meglio non esisteva la mafia nell’accezione che ormai siamo abituati a intendere. Sul Gargano c’era la faida, parola che evocava meri, piccoli contrasti familistici, di gruppi che si ammazzavano per un terreno, per un gregge. In altri termini si tratta “della possibilità, per un privato, di ottenere soddisfazione per la lesione di un proprio diritto ricorrendo all’uso della forza”. Siamo nella sfera addirittura del diritto. Ma quale diritto? Quello che mira, ancora una volta, a minimizzare il fenomeno e crede che l’isolamento linguistico corrisponda a un isolamento di fatto. Se ci fermassimo a questo livello di comprensione, relegando le mattanze che si sono susseguite per decenni in queste terre falcidiando intere generazioni a episodi di faide familiari tra pastori, di lotte ataviche, non potremmo comprendere il fenomeno nella sua globalità e di conseguenza non potremmo cogliere la sua penetrazione nel sistema vitale e pulsante della società garganica. Così il Gargano, terra di sangue e terra dove la gente “per bene” è davvero “per bene” e prova indignazione per gli omicidi efferatissimi, per le lupare bianche, per le uccisioni in pieno centro cittadino, è stato ribattezzato il “promontorio della paura”. Una terra dove il senso della religiosità e della tradizione convive con l’omertà e con l’abitudine a chinare la testa.
(di Anna Piscopo)
Qui a Foggia, se non ti pieghi al ricatto mafioso e politico (poi mi spiegherete quale sarebbe la differenza), ti negano l’accesso al mondo del lavoro.
Qui governa la mafia, anche quando c’è la politica al governo.
Istituzioni come Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e Procura della repubblica reagiscono.
Cittadini e politica remano contro.
Cos’è la mafia?
Chi è la mafia?