Attentato a Tel Aviv. Terrorismo o lupi solitari?
Due cugini palestinesi aprono il fuoco e uccidono 4 persone nel cuore della movida di Tel Aviv. Il pensiero corre subito al conflitto arabo-israeliano con l’aggravante, ora, dell’ISIS
8 giugno. Di sera. L’ennesimo attacco mortale ha scosso Tel Aviv.
Due cugini palestinesi del sud della Cisgiordania hanno fatto fuoco in pieno centro, più precisamente al Mercato di Sarona, una zona della città molto frequentata per via dei locali trendy che la caratterizzano, e che si trova accanto al ministero della Difesa.
L’attacco al Sarona market è stato ben organizzato: i killer, niente kefia ma giacca, cravatta e camicia per non dare nell’occhio, hanno agito con una mitraglietta artigianale.
I morti sono 4 israeliani e molti i feriti. I due presunti terroristi sono stati subito arrestati. Le autorità israeliane hanno parlato di “attacco terroristico” anche se mancano le conferme come d’altronde non c’è la rivendicazione (anche se Hamas, attraverso un suo alto funzionario, ha fatto sapere di benedire l’attentato, “che è una risposta ai crimini israeliani a Gaza e in Cisgiordania”).
Immediata la reazione israeliana. Il premier Netanyahu ha deciso il blocco dei permessi d’ingresso a 83mila palestinesi: “Tutti i permessi per il Ramadan, in particolare per le visite di famiglie dalla Giudea-Samaria (Cisgiordania) in Israele, sono congelati”. La decisione riguarda anche i 500 residenti di Gaza che hanno già ricevuto il permesso di visitare i parenti durante il Ramadan.
Il premier israeliano ha anche deciso l’invio di altri due battaglioni nei Territori occupati (saranno probabilmente dispiegati nel distretto di Hebron, la città simbolo dell’Intifada palestinese. Questo perchè, in questa parte della Cisgiordania a ridosso della barriera di separazione israeliana, il Muro che Israele ha costruito per impedire l’intrusione dei terroristi palestinesi nel territorio nazionale, non sarebbe impenetrabile. E questa falla avrebbe consentito negli ultimi mesi a diversi palestinesi di Yatta, come i due cugini, di entrare senza particolari problemi in Israele e di raggiungere Tel Aviv che dista solo 75 km). Infine, il neoministro della Difesa Lieberman, ha bloccato a tempo indeterminato la restituzione alle rispettive famiglie dei corpi dei palestinesi uccisi da polizia ed esercito.
Nuove tensioni nel Paese
L’attacco nel centro della città costiera israeliana ha fatto nuovamente risalire la tensione nel Paese, stretto tra le tensioni fra arabo-palestinesi e ebrei-israeliani, tra gli sviluppi quotidiani nella vicina Siria e le minacce dell’ISIS. Il clima di apprensione sembra essere quello dell’estate 2014 quando scattò l’Operazione Margine di protezione, una campagna militare (terminata con una tregua) iniziata dalle Forze armate israeliane contro i guerriglieri palestinesi di Hamas ed altri gruppi nella Striscia di Gaza. Il casus belli della guerra di Gaza del 2014 fu il rapimento e l’uccisione di tre giovani coloni ebrei in Cisgiordania, al quale un gruppo di israeliani reagì bruciando vivo, a Gerusalemme, un adolescente palestinese. L’obiettivo dichiarato dell’operazione israeliana era quello di fermare il lancio di missili dalla Striscia di Gaza verso il proprio territorio.
Perché un nuovo attacco?
Obiettivo dell’attacco, è stato probabilmente quello di provocare una reazione di Israele in una fase molto delicata del conflitto medio-orientale. Poco probabile che Israele deciderà di avviare un nuovo scontro diretto con Hamas che, pur avendo elogiato gli attentatori, non ha rivendicato ufficialmente l’attacco di Tel Aviv. Inoltre, non si capisce che ruolo il movimento islamico stia avendo nella presunta trasformazione armata dell’Intifada (un “cambio di paradigma”). Esperti di sicurezza escludono che quanto accaduto a Tel Aviv sia legato alla situazione di Gaza.
L’ANP di Abu Mazen ha condannato l’attacco, dichiarandosi contro le escalation di violenze da entrambe le parti. Fatah, il partito del presidente palestinese, non ha però condiviso la condanna dell’ANP che non considerare l’attacco come una “reazione naturale”, una diretta e inevitabile conseguenza delle politiche di occupazione di Israele che rendono difficile se non impossibile, la vita dei civili in Cisgiordania e Gaza tra demolizione di case, trasferimenti forzato, raid dei coloni alla moschea di Al-Aqsa e aggressioni mortali ai checkpoint.
A queste tensioni “storiche” caratterizzanti il conflitto arabo-israeliano (quest’anno ricorre il centesimo anniversario degli accordi Sykes Picot che ripartirono tra Francia e Gran Bretagna, alcune aree del Medio-oriente a seguito della sconfitta dell’Impero ottomano), si aggiungono quelle derivanti dagli avvenimenti oltre confine: dalla disgregazione del Medio-oriente alla minaccia del terrorismo islamista.
Qualche settimana fa la Francia ha riunito un summit per riprendere la ricerca di una soluzione negoziale del conflitto arabo-israeliano e basata sul principio di “due stati, due popoli”.
L’impiego di un mediatore è fondamentale visto che la soluzione bilaterale non ha portato a nulla. Inoltre, l’Europa è fortemente interessata alla ricerca di una soluzione in quanto questa è sia strumentale a raggiungere e garantire la stabilità della regione, nel rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli, sia importante per fronteggiare e finalmente debellare, l’estremismo islamista e la sua violenza terroristica.
Conflitto israelo-palestinese: due stati, due popoli?
Vero è che i rapporti tra Europa e Israele sono ambivalenti. Escluse le generalizzazioni, alcuni paesi europei vedono Israele come “occupatore permanente” che rifiuta il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e contrario a instaurare, seriamente, un dialogo di pace per la soluzione dei “due Stati”. Sotto accusa è lo sciovinismo di Israele, ravvisabile sia nei media sia nei documenti e nelle dichiarazioni ufficiali di Gerusalemme. E questo spiegherebbe in parte l’ostilità verso Israele e l’antisemitismo molto diffuso in Europa. Intollerabile tuttavia che, a 70 anni dalla Shoah, l’antisemitismo stia diventano un fenomeno normale e naturale in Europa così come in molte altre regioni del mondo. L’attuale antisemitismo europeo non ha colori. Il filosofo francese Alain Finkielkraut lo classifica in base a tre colori e quindi a tre appartenenze politiche: “nero” dell’estrema destra, “rosso” dell’estrema sinistra e “verde” del mondo islamico.
L’attacco al Sarona market permette di riprendere la discussione sul conflitto israelo-palestinese, messo in secondo piano dai recenti sviluppi legati alla minaccia ISIS e alla guerra in Siria. La vicenda israelo-palestinese va risolta e non meramente contenuta. Mantenere l’attuale status quo perchè, come a torto può ritenere Israele, un’iniziativa di pace nel contesto di caos regionale è illusorio, è molto più costoso di una reale soluzione, come scrive Giorgio Gomel su Affari Internazionali: “I costi umani e materiali della “non pace” sono infatti enormi, come attestano gli orrori della guerra di Gaza del 2014 o le aggressioni a colpi di coltello che insanguinano da mesi le strade di Israele e della Cisgiordania e la minaccia crescente di un degrado della democrazia e della stessa convivenza fra arabi ed ebrei in Israele”.
Gomel, membro di una associazione di ebrei europei che sostiene la soluzione “due Stati” per il conflitto israelo-palestinese, ha un’idea ben chiara sulla profonda separazione fra la comunità arabo-palestinese ed ebraico-israeliana: “I palestinesi hanno compiuto errori immani, dal terrorismo suicida contro i civili israeliani all’inutile guerriglia mossa dalla striscia di Gaza, ma sono oggi divisi fra Cisgiordania e Gaza, Autorità nazionale palestinese e Hamas, osteggiati dal mondo arabo, largamente impotenti. Essi non sono cittadini dello stato in cui vivono, Cisgiordania o la striscia di Gaza, dove non esercitano il diritto di voto da dieci anni, né votano per le istituzioni dello stato – Israele – che di fatto controlla la loro esistenza quotidiana […] Nella psicologia dei palestinesi Israele è l’occupante, l’aggressore; per gli israeliani i palestinesi sono il nemico omicida, ingrato e irriducibile che non merita fiducia né diritti di popolo e stato. Per questo è importante guardare a iniziative innovative che scaturiscono dalla società civile, tentando di scalfire l’immobilismo che domina la sfera politica”.
Tra le risorse che potrebbero aiutare a superare lo stallo diplomatico, Gomel individua l’acqua. In virtù degli Accordi di Oslo del 1993 (firmati a Washington Yasser Arafat per l’OLP e Shimon Peres per Israele, gli Stati Uniti e la Russia a far da garanti, gli allora Presidente USA Bill Clinton e il Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin presenti), la cooperazione nel settore dell’acqua è uno dei punti oggetto della Dichiarazione di Principi firmati a Oslo (insieme ai confini, gli insediamenti, i rifugiati, lo status di Gerusalemme) e può rappresentare, sempre secondo Gomel, un punto da cui partire per la soluzione delle altre questioni pendenti tra le due parti. Una soluzione equa e efficace per le parti in causa potrebbe produrre vantaggi sia per Israele (leader nel trattamento delle acque di scarico e nella costruzione e gestione degli impianti di desalinizzazione, Israele produce più di ciò che consuma) sia per la Cisgiordania e la striscia di Gaza, che esiste il grave problema della scarsità di acqua potabile e del conseguente forte rischio di epidemie.
Verso il negoziato?
Ad ora, punto di partenza di un ulteriore, e si spera ultimo, negoziato tra israeliani e palestinesi, è l”Iniziativa di pace araba, una proposta di pace del 2002, presentata al vertice di Beirut della Lega Araba e ri-approvata al vertice di Riyadh nel 2007. A trarne vantaggio non solo i palestinesi ma anche e soprattutto Israele che uscirebbe dall’isolamento diplomatico e avrebbe l’opportunità di collaborare con l’Autorità palestinese e gli stati arabi (soprattutto Arabia Saudita, Giordania, Egitto, ed emirati arabi) per condurre, insieme, la battaglia finale nella guerra contro l’estremismo islamista.
Infine, come accennato, il presunto “cambio di paradigma” dell’Intifada non è ritenuto veritiero da molti palestinesi: “L’Intifada è una continua resistenza popolare all’occupazione e quanto abbiamo visto a Tel Aviv rappresenta l’opposto”. Molti analisti sono inoltre convinti che l’attacco non sia stato neppure un tentativo di ostacolare la ripresa dei negoziati israelo-palestinesi. Piuttosto, molti esperti ritengono che l’attentato sia solo frutto di due fanatici, due lupi solitari, e che all’attacco non debbano essere date più interpretazioni di quelle che esso meriti. E mentre Parigi, Istanbul, Orlando possono, giustamente, contare sulla solidarietà internazionale, Gerusalemme è lasciata sola. È più comodo e quindi opportunistico, provare indifferenza o altro verso il popolo ebraico quando subisce i consueti attacchi dal mondo arabo. Tant’è vero che in occasione dell’attacco al Sarona Market, le tv internazionali hanno preferito la parola “shooting” (sparatoria) anziché terrorismo.
(di Alessandra Esposito)