Addio a Dario Fo, il “giullare” del teatro italiano
E’ scomparso all’età di novant’anni il premio Nobel per la letteratura Dario fo. Una vita per l’arte, per il teatro e… l’amore per Franca Rame
Scrittore, drammaturgo, poeta, attore, scenografo, pittore, intellettuale. E’ difficile sintetizzare la figura di Dario Fo in un’unica definizione. Con lui se ne è andato un pezzo di storia del teatro, della letteratura, del pensiero politico. Si è spento all’età di novant’anni all’ospedale Luigi Sacco di Milano, facendosi beffa fino all’ultimo anche della malattia ai polmoni che lo aveva colpito da qualche tempo. Perché nonostante i medici avessero dato per imminente la sua morte agli inizi di luglio, Fo è riuscito a recitare a Roma ad agosto, davanti a tremila persone e ha concluso lo spettacolo cantando. La passione per la sua arte non lo ha mai abbandonato, neanche negli ultimi momenti: racconta il figlio Jacopo che ha affascinato per un’ora e mezza gli amici di sempre, Carlo Petrini e Doriano Cranco, con i racconti di ciò che vedeva durante le allucinazioni provocate dai farmaci. Voleva trasformare quelle creature della mente in dipinti, farle vivere sopra una tela perché per Dario la pittura è sempre stato il mezzo di espressione primario. «Disegno prima di scrivere. Dico sempre che mi sento attore dilettante e pittore professionista» (qui l’intervista).
Le prime esperienze degli anni ‘50
I segni e i colori sono stati il fil rouge della carriera artistica di Dario Fo, iniziata negli anni ’50 quando, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, si dedica alla scrittura di testi satirici: è il periodo della pura comicità, dei monologhi radiofonici della serie Poer Nano (1951) e della rivista, un genere teatrale in voga negli anni del dopoguerra, in cui Fo irrompe con la sua carica vitale e la sua voglia di affermarsi, spinto dalla mamma Pina Rota che spera di instradare il figlio verso quella passione che lei stessa non ha potuto seguire da giovane. Cocoricò, nata dalla collaborazione Fo-Sportelli-Durano, è il primo passo verso un’arte anticonformista: accanto ai meccanismi tradizionali, infatti, la nuova rivista contiene aspetti anticonvenzionali, legati all’utilizzo della satira come arma per raccontare verità sconvenienti per il palcoscenico. Sono le prime avvisaglie di una nuova forma espressiva nata dagli spunti delle avanguardie artistiche e, soprattutto, dalla passione per la politica. Una modalità di racconto che esplode in Il dito nell’occhio (1953), un progetto legato a nodo stretto al concetto dell’“anti”. Lo spettacolo firmato da Dario Fo, Franco Parenti e Giustino Durano si qualifica subito come l’antitesi della rivista, dalla quale prende i tradizionalismi per sovvertirli e rovesciarli. Dalla novità dell’impianto scenico, alla recitazione tutta mimica, salti e zompi, dai contenuti anticonformisti alla satira politica: nel progetto tutto è anticonvenzionale, nuovo, rivoluzionario.
Il connubio Dario Fo – Franca Rame
Il rovesciamento degli schemi stabiliti, la ribellione per gli stereotipi confezionati ma soprattutto la volontà di usare il teatro come mezzo sociale per arrivare al popolo e raccontare tutto l’inespresso presente in un periodo in cui regna la parola censura. Sono queste le caratteristiche primarie della vocazione artistica di Dario, consolidate e rafforzate nel connubio professionale e personale con Franca Rame. In lei Fo riconosce la donna da amare per la vita e la compagna con cui condividere la passione artistica. Insieme fondano la compagnia Dario Fo- Franca Rame e portano in scena nei teatri borghesi le rivisitazioni delle farse ottocentesche e le nuove commedie dai toni clowneschi: Non tutti i ladri vengono per nuocere, Gli arcangeli giocano a flipper, Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri, Chi ruba un piede è fortunato in amore, Isabella, tre caravelle e un cacciaballe, Settimo: ruba un po’ meno. Dario è l’istrione di stampo circense, si dedica alla scrittura dei testi e disegna le scene e i costumi, Franca fa la parte della “svampita”: gli spettacoli sono un successo.
Accanto alle gioie e alle soddisfazioni, Dario e Franca condividono però anche i colpi della censura che arrivano spietati durante l’esperienza di Canzonissima del 1962 e segnano, in qualche modo, una svolta nella vita professionale dei due artisti. La televisione e i grandi teatri borghesi li rifiutano e così iniziano a spostare l’epicentro verso quella che si rivela la vera vocazione della loro arte: la lontananza dalle scene e dai mezzi convenzionali per avvicinarsi alla gente, alla cultura popolare. Le contestazioni giovanili diventano un sussurro a cui dare eco, le storie di piazza un copione già scritto e il rifiuto del teatro inteso come luogo fisico si manifesta come l’approdo naturale di un percorso che non contempla ripensamenti. Piazze, palazzetti dello sport, case del popolo e balere diventano i palcoscenici di Franca e Dario: è lì che possono incontrare il vero pubblico, quello delle classi lavoratrici. La Palazzina Liberty di Milano, in particolare, si trasforma nella loro casa artistica.
E’ alla fine degli anni sessanta che nasce Mistero Buffo (1969), la “giullarata” in eterno divenire nella quale Dario, unico attore in scena, recita una fantasiosa rielaborazione di testi antichi in grammelot (linguaggio teatrale tipico delle improvvisazioni giullaresche, costituito da suoni che imitano il ritmo e l’intonazione di uno o più idiomi reali, con intenti parodici). Da lì, l’arte di Dario e Franca si trasforma sempre in occasioni di scontro. Gli spettacoli che portano in scena sono la critica dissacrante e satirica del potere (Il Fanfani rapito, Storia di una tigre, La marijuana della mamma è sempre più bella), tanto che la loro carica trasgressiva e sovversiva viene criticata dal Vaticano in occasione de Il teatro di Dario Fo, programma in onda su Rai2 nel 1977, grazie al quale i due artisti riescono a raggiungere un bacino di pubblico molto più ampio rispetto a quello degli “spettacoli di strada”.
Sovversione, trasgressione, teatro sociale, satira e critica politica: sono questi gli ingredienti che hanno caratterizzato dagli anni ’60 ad oggi il percorso artistico di Dario, tra mille successi, battute di arresto, repliche e varianti. Sono questi gli elementi che hanno contraddistinto la sua arte, la linfa vitale che lo ha spinto sempre ad andare avanti, a superare le difficoltà e i dolori, uno tra tutti la morte di Franca nel 2013.
Sovversione, trasgressione, teatro sociale, satira e critica politica lo hanno condotto, infine, al premio Nobel per la letteratura nel 1997. Oggi più che mai fa bene al cuore ricordare la motivazione dell’assegnazione: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Fa ancor più bene, però, sottolineare il commento dell’artista di fronte alla notizia del Nobel: «Con me hanno voluto premiare la Gente di Teatro».
La “Gente” di teatro: quegli artisti che hanno affiancato il “giullare” nella sua lucida follia ma anche tutte quelle persone che hanno apprezzato il valore della sua arte, quel popolo che è riuscito a coglierne il significato più profondo.
Se ne va un grande personaggio, dalle mille sfaccettature, con un talento unico e spontaneo. Restano, tuttavia, le sue opere e quelle di Franca per ricordare l’insegnamento culturale e morale donato all’Italia.
Una consolazione che rende meno amara la sua scomparsa e permette di condividere il pensiero del figlio Jacopo: «Non è credibile che uno muore veramente, dai. Si fa per dire!».
(di Giulia Cara)
Fonte immagine: corriere.it