La crisi del welfare e la fine della modernità

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’editoriale del filosofo Carcea

Non possiamo ignorare che il termine Welfare State, tradotto in italiano con Stato Sociale, abbia acquisito, ormai da tempo, e con buona pace per politici, giuristi e costituzionalisti, diritto di cittadinanza nell’immaginario collettivo. In questo contesto i pareri sono discordi e si dividono tra detrattori e sostenitori. Per i primi, il Welfare State, è visto come una sorta di Robin Hood, l’arciere che ruba ai ricchi per dare ai poveri, mentre per i “timorati di Dio”, esso è un intervento quasi provvidenziale fondato sulla Caritas e la Pietas cristiane. Per altri, le politiche distributive non sono una vera e propria iattura, un assurdo dispendio di energie che finisce per trasformarsi in aumenti della tassazione per il libero mercato, ma un imprescindibile gesto di solidarietà. La questione del Welfare è fortemente divisiva ed è per questo motivo che, proprio dal versante del pensiero liberale, giunge imperiosa una considerazione, si tratta di John Rawls, il più grande filosofo della politica dal ’71 a oggi, il quale ci invita a riflettere su una sua affermazione, e cioè sul fatto una società che dimentichi di avvantaggiare i meno avvantaggiati, tanto per usare il linguaggio del Nostro, non ha diritto di essere definita civile.

E’ senz’altro singolare che un liberale discuta del valore della Civiltà in termini di giustizia invece che di libertà e soprattutto che l’ingiustizia sociale si palesi come crisi della stessa Civiltà. Dobbiamo chiederci, quale relazione ci sia tra l’esclusione dei deboli dal paniere della distribuzione di diritti, risorse e opportunità e il progressivo logoramento del collagene che tiene insieme la società civile? Una ulteriore domanda è questa: che tipo di razionalità è quella sociale, visto che, senza amore per il prossimo sarebbe vuota, mentre riducendola al mero calcolo formale sarebbe cieca. Cercare la risposta a queste domande ci deve far compiere un passo indietro, all’origine della Storia Moderna, per comprendere che la storia stessa è uno sviluppo operoso e progressivo di scelte e decisioni di attori “ incarnati “ nello stesso processo storico, che avanzano la pretesa di riconoscimento e non solo di verità o validità oggettiva delle loro deliberazioni.

La razionalità umana produce storia, ossia il processo in cui ogni decisione presuppone la socializzazione di valori comuni e condivisi, il ché non significa necessariamente e simmetricamente accettati da tutti, ma ineludibilmente modificabili solo tramite il confronto e la discussione. Un semplice cenno fatto con la mano a qualcuno ha la speranza di essere compreso solo se chi lo osserva ne conosca già il significato, come risultato di esperienze maturate in precedenti contesti di condivisione. La distruzione dell’esperienza in comune renderebbe incomprensibile le ragioni del gesto, e quindi dell’Altro, finendo per negare la reciprocità del riconoscimento degli attori implicati nella scena. Tornando al Welfare, dobbiamo chiederci: cosa accade a un essere umano che si vede separato dalla propria identità lavorativa, socializzata e condivisa? Egli è ancora la stessa persona di prima o la sua identità narrativa si sfilaccia progressivamente con lo sfaldamento del suo potere di negoziazione e di integrazione? La razionalità relazionale che è al centro della vocazione sociale del riconoscimento, è il valore centrale dell’inclusione, una società che non è inclusiva, cioè incapace di tenere conto della perenne afflizione del genere umano nella corsa alla conquista della pace, della serenità e della convivenza, finisce per comprimere l’insoddisfazione, inducendo quest’ultima a indossare i panni della violenza e della sopraffazione degli altri. Il fantasma del populismo è sempre in agguato nelle comunità umane, quando guidate esclusivamente dagli effetti del mercato sotto l’incontrastato regime, per dirla con Gallino, della finanza-capitalismo. Le ragioni dell’intesa e quindi del riconoscimento, dei criteri di distribuzione di diritti, risorse e opportunità, devono essere più ampie e inclusive della razionalità strategica, della massimizzazione del profitto, del funzionalismo e della integrazione sistemica.

Siamo di fronte a una svolta, a noi la scelta di riconoscere, custodire e alimentare la civiltà della convivenza, dell’appartenenza, della rappresentanza, della condivisione, oppure regredire al, peraltro, discutibile “Bellum omnium contra omnes” di hobbesiana memoria, inteso come atto di nascita dello Stato moderno, con la differenza che il conflitto non appartiene allo stato di natura, comunque determinato da regole consuetudinarie, bensì, più propriamente, allo stato di Cultura. Un brevissimo, ultimo punto di domanda circa le ragioni del Si o del No, oggi al centro del dibattito politico: si può modificare l’impianto costituzionale senza ledere i diritti sostanziali delle Persone e non di semplici titolari dei diritti?

(di Giuseppe Carcea)

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11 thoughts on “La crisi del welfare e la fine della modernità

  1. Trovo che l’ editoriale in questione sia uno spunto per riflettere sulla nostra identità di cittadini dell’ Occidente.

  2. L’ indifferenza per il del dolore, che ormai, come dice l’ autore , non può non essere socializzato, produce i risultati che sono visibili sulla scena americana.

  3. Grandioso editoriale su cui poter riflettere in modo profondo… sopratutto permette di far riflettere ogni individuo sul futuro, utilizzando il presente con l’esperienza del passato…. complimenti!

    Marco Scarnati

  4. Magnifica analisi, gli interrogativi posti sono un ottimo spunto di riflessione con cui guardare ai fatti recenti e le future prospettive che coinvolgono tutta la società occidentale.

  5. Ottimo editoriale , queste problematiche dovrebbero essere discusse più frequentemente. In un momento in cui si ignora l’ importanza della sovranità popolare.

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