Amarcord: la storia di Carlos Roa, da eroe dei mondiali al ritiro spirituale
Nel mondo del calcio giocatori come Carlos Roa sono considerati pecore bianche in un pascolo di nere, specie rarissime e bizzarre da guardare in modo strano, quasi chiedendosi: “Ma cosa avrà questo qui?”. A volte, però, anche i plurimilionari professionisti sono in grado di mettere il calcio al secondo posto, privilegiando lo spirito, anteponendo l’anima al corpo.
Carlos Roa nasce a Santa Fe in Argentina il giorno di Ferragosto del 1969, inizia a giocare come centravanti, poi capisce che i gol preferisce sventarli piuttosto che segnarli, così indossa guanti e pantaloncini con le protezioni e diventa portiere. In patria gioca con le maglie di Racing Avellaneda e Lanus dove contrae una seria forma di malaria che ne mette addirittura a rischio vita e carriera, ma che alla fine si rivela solo un grande spavento per Roa che, passata la paura, si trasferisce in Europa, per la precisione in Spagna al Maiorca che è una squadra in grande ascesa nella Liga e, grazie alle prestazioni con la formazione iberica, conquista anche le prime convocazioni in nazionale. La stagione 1997-98, la prima al Maiorca per Roa allenato da Hector Cuper, è ricca di soddisfazioni: la squadra grazie ad un gioco frizzante e moderno raggiunge la finale di Coppa del Re dove cade sotto i colpi di un formidabile Barcellona che, qualificato per la Coppa dei Campioni, lascia al Maiorca la vetrina della Coppa delle Coppe per l’anno successivo nonostante la sconfitta in finale. In quella stessa estate, Roa riceve la convocazione da parte del ct argentino Daniel Passarella per i mondiali in Francia dove gioca le partite da titolare, non concede neanche una rete nel girone eliminatorio e diviene l’eroe nazionale nella gara degli ottavi di finale del 30 giugno 1998 a Saint Etienne contro l’Inghilterra: i tempi regolamentari e supplementari finiscono 2-2, Owen realizzerà uno dei gol più belli della storia dei mondiali, Beckham lascerà gli inglesi in dieci uomini per una brutta reazione nei confronti di Diego Simeone che lo aveva innervosito e provocato per gran parte della gara. Ai calci di rigore l’Argentina fallisce solo con Crespo, mentre un attento e glaciale Roa ipnotizza prima Paul Ince ed infine David Batty che si fa parare l’ultimo tiro prima di andare ad oltranza e porta l’Argentina ai quarti. Roa in patria viene festeggiato come una divinità, in molti lo paragonano ad Goicoechea che a Italia ’90 aveva portato quasi da solo la nazionale sudamericana in finale vincendo le sfide ai rigori contro la Jugoslavia ai quarti di finale a Firenze e contro l’Italia in semifinale a Napoli. Ma la corsa dell’Argentina a Francia ’98 si interrompe ai quarti il 4 luglio contro l’Olanda che vince 2-1 all’ultimo respiro prendendosi una bella rivincita dopo la beffa della finale di Buenos Aires di vent’anni prima. Ma l’esperienza e il bilancio per Roa sono comunque estremamente positivi e molte squadre europee iniziano a mettere gli occhi sul brillante portiere del Maiorca. La stagione 1998-99 regala ai maiorchini un’altra annata prestigiosa che però ancora una volta offre un epilogo amaro: la formazione di Cuper, infatti, arriva sino alla finale di Coppa delle Coppe a Birmingham contro la Lazio, ma si arrende al prepotente stacco di Christian Vieri e alla rasoiata precisa di Pavel Nedved che, dopo il momentaneo pareggio del Maiorca con Dani, a poco più di dieci minuti dal termine regala alla Lazio l’ultima edizione di un trofeo che va in pensione per l’irruenza di una Coppa Campioni ormai allargata a sempre più squadre. E’ una delusione per il Maiorca, per Roa e per Cuper che si abituerà ben presto a perdere tutto all’ultimo minuto: col Valencia uscirà sconfitto due volte di seguito dalla finale di Coppa dei Campioni, nel 2000 a Parigi contro il Real Madrid, nel 2001 a Milano contro il Bayern Monaco; Milano che lo accoglierà come tecnico della sponda nerazzurra del Naviglio e nel 2002 Cuper e i suoi giungeranno a 90 minuti dallo scudetto che sarà perso nel fatidico 5 maggio con la sconfitta in casa della Lazio, la vittoria della Juve a Udine e il tricolore ancora una volta a Torino.
E’ proprio nell’estate del 1999 che la vita di Carlos Roa cambia: Manchester United e Arsenal si informano col Maiorca per ingaggiare il portiere argentino, ma il no non arriverà dal club rossonero, ma dallo stesso estremo difensore sudamericano che sceglie di fermarsi, appendere guanti e scarpe al chiodo per cambiare vita: Roa decide infatti di seguire la fede e non il pallone, dedicandosi alla religione, devota alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno. Roa diventa volontario della Chiesa, si prodiga in opere di volontariato nei confronti della gente più povera e degli animali, in particolar modo per la salvaguardia di roditori malati o feriti, offrendo donazioni corpose, anche perché animalista e vegetariano da sempre. Il mondo del calcio, nel frattempo, non comprende la scelta di Roa, i più maligni iniziano a prenderlo velatamente in giro, qualcuno dice “Ma perché Roa si è fatto prete?”. Un mondo spesso superficiale e poco attento che respinge malamente tutti coloro che intraprendono altre strade, magari meno lastricate d’oro. La pausa di riflessione di Carlos Roa dura un anno, poi a luglio del 2000 torna al Maiorca, ma ad una condizione: non dovrà giocare le partite del sabato, perché la sua religione impone il digiuno e il divieto di lavorare dalla mezzanotte del venerdì a quella del sabato. Il Maiorca nel frattempo è cambiato, è meno ambizioso di qualche anno prima, Roa gioca solo qualche partita fra il 2000 e il 2002, scavalcato da un altro estremo difensore argentino, Leo Franco, che gli soffia il posto sia nel club iberico che in nazionale, poi la squadra isolana non gli rinnova il contratto e Roa si trasferisce all’Albacete, sempre in Spagna ma in serie B dove resta per tre stagioni fino a quando, dopo continui dolori e fastidi, Roa scopre di avere un tumore ai testicoli ed è costretto al secondo ritiro della sua carriera, questa volta forzatamente. Il portiere trascorre un anno terribile fra operazioni e chemioterapia, perché il suo cancro non è incurabile ma molto aggressivo e debilitativo; dopo 13 mesi di battaglia, Roa esce vincitore grazie anche all’aiuto della famiglia e della sua fede incrollabile a cui si aggrappa ancora di più. Nel 2006 Roa torna in Argentina, gioca 27 partite con l’Olimpo, poi si ritira definitivamente dal calcio dopo 287 presenze ufficiali e l’apprezzamento generale del popolo calcistico, più per le sue prestazioni fra i pali che per le decisioni umane.
Carlos Roa è divenuto poi preparatore dei portieri di squadre argentine di serie minori, ritirandosi sempre più ad un’esistenza privata dividendosi tra campetti di periferia e famiglia. Per tutti, però, Roa sarà sempre il calciatore che disse di no ai milioni e alla campana dorata del calcio, per seguire la strada della fede e della vita poco comoda; un no ai soldi e un si all’anima. Una storia di forza e tenacia, perchè Roa fortunato non è mai stato, ha lottato contro problemi di salute e contro i mulini a vento di un mondo del calcio che poco ama i ribelli buoni che a un contratto a tanti zeri preferiscono il muso riconoscente di un castoro.
di Marco Milan