Referendum catalano: dubbi e ripensamenti sull’indipendenza
Dopo il referendum del 1 ottobre, la Catalogna vuole l’indipendenza dalla Spagna, ma i dubbi, i problemi e i ripensamenti rendono il processo di secessione molto complesso. Da Madrid si dicono pronti a difendere l’unità del Paese, mentre nel resto d’Europa i movimenti indipendentisti guardano con fiducia all’esempio catalano
Il 1 ottobre scorso, dopo oltre cinquecento anni di permanenza nel Regno di Spagna prima, nella repubblica franchista poi e successivamente di nuovo nel Regno guidato dai Borbone, la Catalogna è andata al voto per mettere nero su bianco il suo desiderio di indipendenza. L’esito del referendum, voluto dal presidente della regione catalana, Carles Puigdemont, è stato chiaro: il 92% di coloro che si sono recati alle urne (poco meno del 50% degli aventi diritto) si è espresso a favore della secessione dal resto della Spagna.
Dunque a Madrid non sono bastati cinque secoli per debellare lo spirito indipendentista dei catalani e la loro voglia di libertà. Nemmeno la concessione di larga autonomia finanziaria e legislativa, paragonabile a quella dei land tedeschi è stata sufficiente a piegare e placare quelle spinte centrifughe che da sempre puntano all’uscita della Catalogna dal Regno di Spagna. I motivi che hanno spinto la regione a indire un nuovo referendum sull’argomento sono da ricercare sia sul piano culturale sia su quello economico.
La Catalogna vanta da sempre tradizioni, usi e costumi in parte differenti da quelli spagnoli. La lingua parlata è il catalano, tanto diversa dal castigliano da essere riconosciuta come una delle lingue ufficiali del Regno di Spagna. Tuttavia, i motivi più importanti a sostegno del quesito referendario sembrano derivare dalle caratteristiche economiche della regione. La Catalogna è il cuore pulsante dell’economia spagnola, la locomotiva che è riuscita a trascinare la Spagna fuori dalla terribile crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008. Facendo un paragone con il nostro Paese, la Catalogna è il nord Italia del Regno guidato da Filippo VI, con un’economia che negli ultimi anni è andata via via specializzandosi nel settore dei servizi.
Il referendum del 1 ottobre è stata forse una sconfitta per tutti. Se da un lato ha fatto emergere quelle che sono le eccessive aspirazioni indipendentiste dei catalani, dall’altro ha mostrato l’assoluta incapacità di Madrid, del governo spagnolo, ma anche della monarchia, di gestire la situazione. Lo stop alla consultazione referendaria da parte della corte costituzionale spagnola non è bastato a fermare le spinte indipendentiste, né sono servite la chiusura forzata di centinaia di seggi, né l’intervento della Guardia Civil, che si è scagliata con una ferocia insensata contro i cittadini catalani che si recavano alle urne. Le scene rimbalzate su tutti i media mondiali erano assolutamente indegne di un Paese civile e democratico quale si definisce il Regno di Spagna.
A distanza di alcune settimane dal voto e dall’aberrante spettacolo dato dal governo di Madrid, le posizioni non sembrano essere mutate poi molto. L’esecutivo guidato da un sempre più debole Mariano Rajoy continua a dirsi pronto a difendere quell’unità nazionale sancita dalla carta costituzionale. Re Felipe, in un discorso rivolto al popolo spagnolo pochi giorni dopo la consultazione referendaria, ha sottolineato la slealtà delle autorità catalane e la necessità di preservare la costituzione e lo stato da possibili spinte centrifughe. Più complesso, invece, è la situazione nella regione ribelle. Attualmente la Catalogna è sottoposta a una duplice forza. Da un lato quella indipendentista che vuole proseguire a marce forzate verso la piena secessione. Dall’altra vi è quella rappresentata dalla corrente più cauta e riflessiva, che dopo la dimostrazione di forza del 1 ottobre vuole tornare al tavolo delle trattative con Madrid. Una posizione questa tutt’altro che priva di razionalità.
Dopo il referendum e le dichiarazioni di molti esponenti della politica catalana che spingevano per un’accelerazione del processo di indipendenza, molte banche e numerose aziende con sede in Catalogna hanno pensato di fare le valigie. Inoltre le manifestazioni di malcontento di larga parte dei Paesi europei e di molti stati della comunità internazionale, nonché della stessa UE, sembrano aver convinto il presidente Puigdemont a prolungare il periodo di riflessione per evitare di prendere decisioni affrettate. Sul tavolo del resto non c’è solo la secessione dalla Spagna, ma anche la stessa appartenenza all’Unione Europea e il riconoscimento di larga parte della comunità internazionale. Due fattori che potrebbero danneggiare irrimediabilmente l’economia catalana, troppo fragile per poter sopravvivere da sola. Basta pensare che oltre l’80% delle esportazioni catalane sono dirette ai Paesi dell’Unione.
Ciò che l’Europa, gli alleati europei e la maggior parte della comunità degli stati si augura è che il dialogo fra Madrid e la Catalogna possa riaprirsi, portando le parti a più miti consigli. Una secessione non gioverebbe a nessuno, ma al contrario potrebbe danneggiare molti, se non tutti. Forse gli unici che avrebbero tutto da guadagnare da una concretizzazione dell’indipendenza catalana sono i numerosi movimenti autonomisti sparsi nei vari Paesi europei, che vedono in quello che è accaduto in Catalogna una speranza anche per le loro velleità indipendentiste. Fra i maggiori sostenitori della secessione catalana, c’è anche la Lega Nord di Matteo Salvini, che si appresta a celebrare un referendum per l’autonomia, in programma il 22 ottobre. Chissà se anche in Veneto e Lombardia, regioni in cui si terrà la consultazione, i risultati saranno schiaccianti come quelli registrati nella regione catalana.
(di Christopher Rovetti)