Bari non dimentica le vittime della mafia. Intervista a Pinuccio Fazio
A 17 anni dall’uccisione di Michele Fazio, colpito per sbaglio durante uno scontro tra i clan rivali Strisciuglio e Capriati, Bari ricorda le vittime innocenti e dice no al muro dell’omertà
Un giorno d’estate come tutti gli altri nel cuore della città vecchia di Bari. Ragazzini per strada sui motorini senza casco, donne con il grembiule e olio di gomito a lavorare la pasta fresca con le mani. Poco più in là qualche turista straniero ammira le fattezze del romanico pugliese che si staglia verso l’alto. La pietra bianca della cattedrale sembra illuminarsi ancora di più quando c’è il sole.
Ma subito l’eleganza dei vicoli lascia il posto all’odore del malaffare. In questa terra di bellezza e di mafia crescono piccoli criminali costretti troppo in fretta a sostituire i giocattoli con le armi. Spesso sono figli di madri che piangono in silenzio. Altre volte sono vittime innocenti che, in questo sporco gioco, non ci vogliono entrare. Esattamente qui il 12 luglio del 2001 è stato ucciso Michele Fazio, allora quindicenne, colpevole soltanto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Vittima sacrificale dello scontro tra i clan rivali Strisciuglio e Capriati. Manovali dell’uccisione del giovane Michele, due ragazzi, anche loro all’epoca giovanissimi.
Ci voleva questo ennesimo fatto di sangue per risvegliare le coscienze dei baresi. Da quel momento Michele è diventato simbolo della rinascita. Oggi, a 17 anni dalla sua morte, istituzioni, associazioni e cittadini del capoluogo pugliese, e non solo, ricordano le vittime innocenti della mafia.
Con mirabile forza i genitori, Lella e Pinuccio Fazio, hanno creato un’associazione a pochi passi dal luogo in cui per sbaglio la traiettoria del proiettile ha colpito Michele. Come a dire “noi da qui non ci muoviamo”. Animato dalla ferma consapevolezza che uniti si può abbattere il muro dell’omertà, Pinuccio Fazio è un instancabile promotore della legalità nelle scuole, nelle associazioni, nelle parrocchie di tutta Italia, da nord a sud. Il suo racconto si fa ogni giorno testimonianza. Un vero fiume in piena, non dice mai di no, nemmeno quando gli chiediamo di fare una chiacchierata una domenica mattina.
Cosa è cambiato qui a Bari da quella sera del 12 luglio 2001?
I clan da sempre si fanno la guerra per spartirsi il territorio, con il potere dei soldi. E spesso si servono dei più giovani. Ma il problema di Bari vecchia non è la mafia, siamo noi quando sappiamo e non denunciamo. Dopo la morte di mio figlio Michele ho detto basta.
La sua è una lotta per la legalità.
Non dobbiamo parlare di legalità – questa parola la usano anche i mafiosi – ma di impegno. E il mio impegno è tirare fuori dalle mani dei criminali i più giovani il cui futuro è già segnato: il carcere o la morte.
Quando è nata l’associazione dedicata a suo figlio Michele?
Questa associazione è nata nel 2004 non solo per mantenere vivo il ricordo di mio figlio ma per riprendermi il mio quartiere. Desidero un quartiere libero dalla mafie. Mio figlio non è stato ucciso soltanto dai proiettili di quei criminali, ma anche dal muro dell’omertà.
Secondo lei oggi la microcriminalità è diminuita?
Hanno messo le radici in altri quartieri vicini a Bari. La microcriminalità non è sparita, si è semplicemente spostata.
Perché un giovane fa affari con i boss?
Sicuramente una delle cause principali è la disoccupazione. Una bustina con 20, 30, 50 euro da ottenere in poco tempo per una commissione fa comodo.
Chi sarebbe diventato oggi Michele?
Michele aveva tante idee, ma una su tutte prevaleva: voleva entrare a far parte delle forze dell’ordine.
Domanda scontata ma legittima: ha mai avuto paura di ritorsioni?
Devo portare avanti la storia di mio figlio. Non ho paura. Lui mi dà la forza dal cielo. La mia è una missione e il coraggio me lo danno i ragazzi che hanno deciso da che parte stare.
(di Anna Piscopo)