Quo vadis Europa. Le elezioni che fanno tremare la democrazia
di Emiliana De Santis
Le urne sono ancora calde, le sorti già decise. Domenica 6 maggio non si sono svolte solo le elezioni amministrative italiane. C’è stato il secondo turno francese, il voto parlamentare, presidenziale e amministrativo in Serbia, il rinnovo del Parlamento greco e di quello del Bund tedesco dello Schleswig-Holstein. Alla luce degli eventi olandesi e di una tornata locale che ha già smentito il recente successo dei popolari di Mariano Rajoy in Spagna, si può affermare che siamo di fronte a un giudizio sull’operato dell’Unione Europea più che a un voto in senso stretto.
L’Economia – La scorsa settimana, il presidente della Bce, Mario Draghi, ha fatto eco alle parole del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e ha invitato le cancellerie europee a non inasprire ulteriormente la pressione fiscale ma anzi a reperire i fondi per rilanciare, nel più vasto quadro dell’Unione, le iniziative per la crescita. Se, infatti, il rigore di bilancio è condizione indispensabile per lo sviluppo, non è altresì sufficiente a fornire gli input necessari a carburare il gran carrozzone che l’economia europea è in questo momento. Perfino il fiscal compact dello scorso gennaio, se non seguito da una vera e propria politica di unione fiscale, con la creazione di un ministero del Tesoro Europeo e un bilancio autofinanziato, non servirà se non a punire qualche malcapitato incappato nelle ferree procedure perché non in grado di mascherare i conti. Ce lo ripetiamo ormai da anni che ciò che manca all’Europa è l’Europa stessa, una concreta voglia di comporre gli interessi nazionali all’interno di un’Unione che non sia solo bella cornice di grandiose iniziative ma Federazione di Stati legati dalla storia, dalle rispettive società e da quel comune sentire che mette insieme gli individui per trasformarli in cittadini.
L’estrema che spopola – Certo, se questa era la via da prendere, in tanti l’hanno abbandonata a favore della più facile scorciatoia. Il boom di Marie Le Pen, in Francia, è solo la punta di un iceberg che affonda le radici nel populismo e nella demagogia cui la gente si affida in tempo di grande crisi, umana e sociale prima che materiale. Anche il governo olandese ha presentato compattamente le dimissioni, il 23 aprile, a causa del mancato accordo sul pacchetto di misure di austerity per ridurre il deficit pubblico. Dopo tre settimane di discussione, il premier Mark Rutte ha ceduto alle pressioni della destra euroscettica e islamofoba di Geert Wilders, che ha tolto all’esecutivo il suo sostegno proprio per sollecitare le urne. Urne incerte anche in Grecia dove i cittadini, stanchi della crisi, guardano all’Europa con sempre maggiore scetticismo e apatia tant’è che i candidati hanno tenuto comizi per stimolare i greci più che altro ad andare a votare. Favorito è il partito di centrodestra Nea Dimokratia ma sembra proprio che il vento dell’antipolitica che soffia in Italia sia arrivato fino ad Atene o forse è da li che ha avuto origine per avvolgere il vecchio continente in una spirale che rischia di distruggere la creatura immaginata dai padri fondatori europei.
Tra sogno e realtà – La questione è tutta li, in una Europa che è tutt’altro da come la si era progettata, partita dall’integrazione economica per giungere a quella politica e, invece ferma alla prima, scontando l’errore di non aver proceduto con la seconda. La crisi economica sarebbe comunque arrivata, ma avrebbe avuto un minor impatto se a fronteggiarla ci fosse stata una governance europea compatta, non unanime ma quantomeno armonica, dinamica e politicamente orientata verso il futuro piuttosto che angusta giardiniera dell’orticello nazionale. Questo distacco dagli ideali sta causando l’allontanamento del desiderio di Europa anche in Paesi candidati come Turchia e Serbia, da sempre desiderosi di entrare nel club. La Turchia di Erdogan muove passi da media potenza, con equilibrismi di lungo respiro nella regione più calda del pianeta. La Serbia invece pare ammaliata dal socialismo di Ivica Dacic, 46enne di successo tra giovani, pensionati e operai: i suoi miti sono Obama e Tito, non rinnega l’avvicinamento ma all’UE ma avverte che la Serbia può farcela anche da sola.
E se tutti noi iniziassimo a pensare di potercela fare da soli?
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