Amarcord, l’intervista: “Vi racconto il pomeriggio che mi ha stravolto la vita”.

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Il pomeriggio è freddo a Lecce domenica 14 marzo 1993. Allo stadio Via del Mare è in programma Lecce-Cosenza, 26.ma giornata del campionato di serie B, una gara sentita e pericolosa perchè le due tifoserie non si amano, tutt’altro. Quella che doveva essere una semplice giornata di sport diventerà un dramma che sfiora i contorni della tragedia e squarcia l’Italia ancora oggi a quasi 30 anni di distanza.

I tifosi di Lecce e Cosenza non si amano, se le sono giurate da quando il 14 giugno del 1992 i calabresi hanno perso proprio nel Salento le ultime speranze di salire per la prima volta in serie A e l’1-0 leccese firmato da Giampiero Maini ha sancito l’aritmetica salvezza dei pugliesi e la condanna ad un’altra stagione in B per i silani. Alla settima giornata d’andata del campionato 1992-93, le due compagini si ritrovano di fronte allo stadio San Vito di Cosenza, è il 18 ottobre 1992: i tifosi del Lecce entrano in ritardo nell’impianto cosentino dopo varie cariche della polizia ed una sassaiola con alcuni sostenitori calabresi. Il 14 marzo va di scena la gara di ritorno: a Lecce arrivano diverse centinaia di tifosi del Cosenza, sistemati nel settore ospiti del Via del Mare; iniziano a sfottere i rivali, ricordano loro che all’andata sono stati dentro lo stadio per appena 3 minuti. Esagerano, magari, ma la tensione sale. La partita è brutta e spigolosa, finisce 0-0, e attorno al 90′ accade di tutto: le due tifoserie passano dagli insulti alle mani, dalle parole ai fatti, finchè un boato assordante risuona in tutto l’impianto: una bomba carta lanciata dalla curva cosentina è esplosa nella tribuna est. L’aria è pesante, a terra c’è un giovane di 21 anni, leccese, Carlo Piccinonno, a cui la bomba è scoppiata fra le mani; perderà tre dita e l’uso dell’arto destro in quel pomeriggio d’inferno.

Oggi Carlo Piccinonno, 48 anni, si racconta, per la prima volta riapre le porte della memoria e torna coi ricordi a quella giornata che lo ha segnato e cambiato per sempre. E’ schietto, socievole e alla mano, Carlo, è sposato e padre di due figli, lo stomaco un po’ pronunciato conferma la bontà della cucina salentina, lo spirito è quello dei genuini uomini del sud, accoglienti e pronti allo scherzo. Scherza e si diverte, prende di petto anche il destino che l’ha colpito e quella protesi alla mano con cui convive da 26 anni; gioca e si burla di quelle dita artificiali e frequenti sono le sue battute con riferimenti alla sua condizione fisica.

Carlo, da quanto sei tifoso ed appassionato di calcio?

“Lo sono da sempre, ho sempre amato questo sport, fin da bambino. Sono nato a Lecce e sono tifoso leccese, ma ho anche il cuore viola. Adoro la Fiorentina, la squadra dai numeri 10 d’oro, e sono un anti juventino convinto, mi raccomando scrivilo”.

Ricordi la tua prima volta allo stadio?

“Certo: Lecce-Napoli del 6 ottobre 1985, primo anno del Lecce in serie A, 5° giornata, c’era Maradona in campo, finì 0-0, bei ricordi”.

Il calciatore che hai ammirato di più?

“Me ne vengono in mente tanti: Paolo Benedetti, Barbas, Vanoli. E poi lui, Giancarlo Antognoni, l’unico calciatore al mondo capace di toccare la palla guardando il cielo”.

Veniamo a quel Lecce-Cosenza: sapevi che era una partita a rischio?

“Si. C’erano stati i precedenti dell’anno prima e della partita di andata, insomma, che per il ritorno se la fossero giurata era palese. Mi ricordo che il Cosenza era seguito in casa e in trasferta da quel frate anziano, come si chiamava?”.

Padre Fedele?

“Esatto, bravo. C’era anche lui il 14 marzo a Lecce, sembrava un capo ultrà anche se aveva il rosario al collo e i sandali da frate”.

Ricordi quando sono iniziati i tafferugli?

“Verso la fine della partita. All’epoca intorno al 75′ aprivano tutti i cancelli dello stadio e si poteva passare da un settore all’altro, così io mi spostai dalla curva nord alla tribuna est, quella vicino al settore ospiti, per vedere meglio il campo e la gara. Non capii immediatamente che il lancio di oggetti era così violento. Vidi la bomba carta piombare vicino a una ragazzina, gliela tolsi da sotto i piedi e mi scoppiò addosso. Si formò un capannello di gente attorno a me ma nessuno mi aiutava; uscii da solo dallo stadio, con la mano sinistra mi tenevo quel che rimaneva della destra, avevo sangue ovunque e le dita spappolate, incontrai una pattuglia della polizia che mi chiuse il finestrino in faccia e andò via. Con l’aiuto di qualcuno, che non ho mai saputo identificare, raggiunsi la zona delle ambulanze, mi caricarono su una di esse e lì successe il finimondo: tifosi del Lecce provenienti dalla curva, pensando che a bordo ci fosse un cosentino, attaccarono il mezzo con un lancio di sassi, aggredirono l’autista e sfilarono le chiavi dal cruscotto. Per fortuna uno di loro mi riconobbe perchè frequentavo anch’io la curva e disse: “Carlo, sei tu, ma che ci fai qui?“. Andarono via e io fui trasportato prima all’ospedale di Lecce e poi a Modena dove c’erano i migliori specialisti d’Italia; a tal proposito mi consenti una menzione particolare?”.

Prego.

“L’ospedale di Modena era non solo attrezzatissimo, ma anche pieno di umanità, il primario era Giorgio De Santis, una persona straordinaria, nello stesso ospedale avevano già operato Alessandro Nannini nel ’90. Quel luogo che è stata la mia casa per qualche settimana avrà sempre un posto di rilievo nel mio cuore”.

Cosa è accaduto al tuo risveglio?

“Chiesi i risultati delle partite. Sapevo che Lecce-Cosenza era finita 0-0, ma non sapevo cosa avesse fatto la Fiorentina; mi dissero che aveva vinto 2-0 contro il Pescara e fu la prima notizia felice che ebbi dopo quel macello”.

Chi ti è stato più vicino in quei momenti?

“Tutti: gli amici, la mia fidanzata e soprattutto la famiglia. Mio padre lavorava all’Eni, ogni venerdì pomeriggio partiva, veniva a Modena e stava con me fino alla domenica sera”.

Lo sai che Fabio De Rose, uno dei tifosi del Cosenza che ha partecipato al lancio delle bombe carta quel pomeriggio e che subì gravi danni a un piede, è morto nel 2004?

“Non lo sapevo, non mi interessa”. Carlo fa una lunga pausa, prende fiato e poi riparte: “Umanamente mi dispiace, ci mancherebbe, chissà, forse il karma. Alla fine quello che è accaduto a me poteva capitare a lui. Vabbè andiamo avanti”.

Hai avuto qualche risarcimento dopo questi fatti?

“I miei avvocati fecero causa contro ignoti, ma non portò a nulla. Provarono a tirare in mezzo il Lecce e la questura per il fatto della pattuglia che mi aveva ignorato, ma non ne ricavammo niente. Non ho avuto un centesimo”.

Come è cambiata la tua vita da allora?

“Lavoro in comune all’ufficio ambiente ed ho un’etichetta discografica, la Joyfull Family Records. Invece di piangermi la mano ho trasformato una delle mie passioni (la musica) in un lavoro. Ho due figli, Giulia quasi campionessa di pattinaggio, Andrea più piccolo che è una bella peste. Ho festeggiato proprio in questi giorni dieci anni di matrimonio e poi ti dico: ho conosciuto persone fantastiche che senza questa esperienza non avrei mai visto, per cui nella sventura ho potuto anche scoprire valori e gente speciale”.

E lo spirito?

“Vedi, se sono io il primo a crearmi il problema della menomazione, metto in difficoltà anche gli altri. Poi è chiaro, non è stato come bere un bicchier d’acqua affrontare la vita dopo quel 14 marzo 1993: tuttora la notte sento la bomba esplodere, sento quel rumore incredibile. L’ansia c’è, eccome, ma la reputo un’amica che mi avvisa e mi mette in guardia, non è per forza qualcosa di negativo”.

Il tuo rapporto con lo stadio da quel pomeriggio?

“Ci vado tuttora, mi diverto. Fui invitato la settimana dopo il fattaccio dal Lecce per assistere a Lecce-Bari. Ricordo che una radio della città voleva intervistarmi dopo la partita, io non sapevo cosa accidenti dire, mia zia Adriana (Adriana Poli Bortone, nota attivista politica pugliese ed ex sindaco della città di Lecce, ndc) mi scrisse su un foglio quelle quattro parole che alla fine riuscii a dire”.

Noti differenze fra stadio e tifosi oggi rispetto a ieri?

“Oggi la gente è più calma, all’interno degli stadi accadono meno scontri da qualche anno a questa parte, però soprattutto in serie A perchè nelle categorie minori, invece, gli stadi continuano ad essere zone franche. Ti faccio l’esempio di Casarano-Taranto della scorsa settimana, serie D: esiste una grande rivalità in questo derby fra le due fazioni. Risultato? Tafferugli e sassaiole prima della gara, tifosi di casa all’ospedale, botte fra ultras e polizia. E chi ne parla? Nessuno”.

Manderesti i tuoi figli allo stadio?

“Si, certo. La più grande già l’ho accompagnata, ci siamo divertiti. Amo guardare le partite dalla curva, non è stato nè un trauma e nè un problema tornarci, come ti ho detto prima, sono anche tornato al Via del Mare una settimana dopo l’incidente”.

Vogliamo chiudere con una parola sul Lecce di oggi?

“Se devo dire la verità non sono ottimista. L’allenatore Liverani mi piace molto, ma temo che la squadra non sia attrezzatissima per la serie A, manca esperienza. Mancosu, Petriccione, La Mantia: li vedi in serie B e sono ottimi calciatori, però il salto di categoria si sente, la serie A, si sa, è un’altra cosa. Confido in Babacar e Lapadula, forse coi loro gol la squadra si salverà”.

E la Fiorentina?

“Si è chiuso il capitolo dei Della Valle e io dico che è stata una fortuna. Vediamo l’americano nuovo (Rocco Commisso, ndc) che pare avere buone idee, ha tenuto Federico Chiesa, speriamo bene anche qui. A me vengono in mente i grandi del passato: la classe di Antognoni, Baggio e Rui Costa, oppure Batistuta. Ma ti ricordi che forza della natura era? Sono un nostalgico del calcio, se ripenso a Batistuta mi viene il magone”.

Cala così il sipario su una storia datata nel tempo ma, come si è potuto evincere dalle parole del protagonista, potenzialmente ancora attuale. Carlo Piccinonno ha perso qualcosa da un pomeriggio di caos, ma ha acquistato tanto a livello morale, il calcio gli è rimasto nel sangue, ama la sua terra, la musica e quel pallone che rotola. Lecce e Fiorentina nel suo cuore, la speranza di un calcio più limpido e qualche parola poco benevola nei confronti di Antonio Conte (“Ci ha traditi due volte – dice fra i denti – prima esultando contro il Lecce con la Juve e poi allenando il Bari”), il tutto col sorriso di chi la vita l’ha presa a pugni, anzi, come dice lui, con un pugno solo.

di Marco Milan

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