Amarcord: stravaganze e castighi, la storia dell’Iraq ai mondiali
Le cenerentole che partecipano alle edizioni della Coppa del Mondo fanno quasi sempre parlare di sé, un po’ per folklore, un po’ perché rappresentano una novità (specie se sono nazionali esordienti), un po’ perché servono a riempire giornali e notiziari nelle prime giornate della manifestazione, in attesa che entrino in scena le favorite. La storia dell’Iraq e della sua unica apparizione, però, va assai oltre l’ambito folkloristico, raccontando dietro le quinte una realtà ben diversa dallo sport.
Fino all’edizione francese dei mondiali (anno 1998), la Coppa del Mondo faceva registrare 24 partecipanti, di cui 22 andavano a giocarsi il posto mediante le qualificazioni e 2 erano ammesse di diritto, la vincitrice dell’ultima edizione e la nazionale ospitante. Il continente asiatico prevedeva due soli accessi e la lotta per staccare i preziosi biglietti era più serrata che mai in un calcio ancora lontano dalle potenze europee e sudamericane. In vista dei mondiali del 1986, inizialmente previsti in Colombia e poi assegnati al Messico dopo un violentissimo terremoto che aveva messo in ginocchio il paese colombiano, l’Asia organizza le sue qualificazioni con due logiche favorite all’approdo alla fase finale: una è la Corea del Sud, l’altra il Giappone. Peccato, però, che solo una potrà sbarcare in Messico, dato che il regolamento prevede una fase preliminare ed una finale divisa in due raggruppamenti, uno dedicato alla zona mediorientale ed uno a quella dell’estremo oriente. Logico allora che anche nazionali come Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi e soprattutto Iraq inizino a sognare la storica qualificazione a Messico ’86; gli iracheni in particolare vogliono cominciare a farsi valere anche nello sport dopo che nel 1979 Saddam Hussein ha preso le redini del paese e dettato subito legge con estrema forza.
L’Iraq non è mai stata una potenza del calcio, ma Saddam vuole che lo diventi, affida la Federazione ad una delle sue guardie del corpo, Sabah Mirza, protagonista già al suo insediamento nel 1980 quando aggredisce l’arbitro dello spareggio per le Olimpiadi fra Iraq e Kuwait, vinto da questi ultimi per 3-2 e a seguito del quale il direttore di gara viene aggredito, minacciato con una pistola e rimandato a casa con varie fratture che costeranno all’Iraq una multa salatissima e la squalifica di due anni per le gare di casa. Ma c’è di più: per rendere il calcio iracheno più competitivo, Saddam Hussein fa scendere in campo suo figlio Uday che fonda un nuovo club, l’Al-Rasheed, e prova a convincere tutti i migliori calciatori del paese a trasferirsi nella sua squadra; chi accetta grazie ad offerte economiche vantaggiose non ha problemi, chi rifiuta anche di fronte ai tanti soldi messi sul piatto viene persuaso con altri metodi. E’ il caso di Ahmed Radhi, uno dei talenti del calcio iracheno, che alla proposta dell’Al-Rasheed dice no, si indispettisce per l’insistenza e una notte viene prelevato in casa sua da loschi figuri, picchiato e indotto con la forza a firmare per quella che in poco tempo diventa la squadra più forte del paese. Il monopolio rende il campionato piuttosto noioso, ma favorisce la nazionale che si ritrova, in pratica, tutti i calciatori già rodati poiché facenti parte del medesimo organico.
L’Al-Rasheed è infatti quasi totalmente rappresentato dai migliori giocatori della nazione e così la rosa dell’Iraq che partecipa alle qualificazioni per Messico ’86 si ritrova ad essere una squadra solida, compatta e con meccanismi ormai collaudati. Gli iracheni vincono facilmente il girone preliminare contro Qatar, Giordania e Libano, perdendo solamente una partita contro i qatarioti; poi nel secondo turno ottengono la qualificazione a spese degli Emirati Arabi e si ritrovano a disputare la finale, cioè lo spareggio, contro la Siria: chi vince è ai mondiali. La gara di andata si gioca in casa dei siriani, a Damasco, il 15 novembre 1985 e termina 0-0; quindici giorni dopo a Ta’if (Arabia Saudita) in campo neutro l’Iraq vince per 3-1 e a Baghdad e dintorni esplode la festa perché la nazionale irachena è per la prima volta qualificata ai mondiali. Saddam Hussein è raggiante, la visibilità del suo paese ora coinvolge anche lo sport e per di più nella manifestazione più famosa, importante e celebrata del mondo. Che l’Iraq non sia una pretendente al titolo lo sa pure Saddam stesso, ma che la nazionale asiatica abbia staccato assieme alla Corea del Sud uno dei due tagliandi per i mondiali è evento che inorgoglisce l’intero stato, e pazienza se a farne le spese sono stati tre commissari tecnici che la Federazione ha cambiato nel corso delle qualificazioni.
Nel sorteggio della fase finale del torneo, l’Iraq (unica debuttante assoluta assieme alla Danimarca) viene inserito nel gruppo B coi padroni di casa del Messico, il Belgio ed il Paraguay. La preparazione viene svolta in altura, un problema non da poco per i calciatori iracheni che spesso e volentieri a fine allenamento boccheggiano con la lingua di fuori; ma alla Federazione (aizzata da Saddam Hussein) non interessa nulla dell’altitudine, dell’inesperienza a certi livelli e della forza degli avversari: in Messico sono vietate brutte figure, c’è poco da discutere o da ribattere. Poi l’Adidas, sponsor tecnico della nazionale, recapita le divise e molti giocatori pensano che il colosso sportivo abbia sbagliato destinatario: le maglie dell’Iraq sono infatti solitamente bianche con contorni verdi, mentre quelle che arrivano in Messico sono totalmente diverse, una è gialla e un’altra celeste. Qualcuno chiede spiegazioni, ma la Federazione non ascolta neanche le rimostranze: “Zitti e lavorate” è la risposta dei dirigenti. Nessuno saprà mai perché l’Iraq si ritrovi a giocare con mute dai colori sgargianti e completamente differenti da quelli classici, qualche successiva leggenda parla addirittura di un errore della ditta di abbigliamento a cui la federazione irachena non ha prestato attenzione, mentre l’Adidas, una volta accortasi del pasticcio, si è ben guardata dal comunicarlo ai severi dirigenti asiatici.
Il 4 giugno 1986 l’Iraq esordisce ai mondiali giocando a Toluca contro il Paraguay. La partita va in scena a mezzogiorno, caldo, altitudine e umidità sono alle stelle, i calciatori sembrano viaggiare al rallentatore, il Paraguay fa circolare meglio la palla, forte del maggior tasso tecnico, sblocca la situazione al 35′ grazie ad un gol di Romero che sarà anche la rete che deciderà l’incontro a favore della nazionale sudamericana. Della partita, però, si ricorderà molto più l’incredibile pastrocchio arbitrale della terna mauritiana: proprio a ridosso dell’intervallo, Ahmed Radhi stacca indisturbato al centro dell’area di rigore su azione di calcio d’angolo e mette la palla in rete per un 1-1 che non si concretizzerà mai, però, perché clamorosamente l’arbitro fischia la fine del primo tempo con l’azione in gioco, scatenando l’ira dei calciatori iracheni, giustamente rabbiosi dopo una palese ingiustizia. L’8 giugno, sempre a Toluca, l’Iraq si gioca contro il Belgio le residue speranze di qualificazione, ma anche stavolta la nazionale asiatica grida al complotto: il Belgio, squadra forte ed esperta, si porta sul 2-0 in soli tre minuti grazie a Scifo e a Claesen, poi accade di tutto perché l’arbitro colombiano Diaz ammonisce per errore l’iracheno Gorgis, confuso con Oraibi dal momento che entrambi portano un bel paio di baffoni. Gorgis applaude ironicamente il direttore di gara che lo spedisce sotto la doccia, quindi al 59′ Radhi accorcia le distanze diventando il primo (e sinora unico) calciatore iracheno a segnare ai mondiali, prima che si scateni il finimondo quando al fischio finale tutto l’Iraq protesta contro l’arbitro e il centrocampista Shaker Mahmoud gli si scaglia contro sputandogli in un occhio, gesto che gli varrà un anno di squalifica.
L’Iraq è ormai eliminato e l’11 giugno a Città del Messico gioca la sua ultima partita perdendo 1-0 contro i padroni di casa e chiudendo la sua avventura con zero punti, un solo gol segnato e 4 incassati. Un ruolino di marcia abbastanza prevedibile alla vigilia per una nazionale sostanzialmente debole ed inesperta, non così però per Uday Hossein che al ritorno in patria dei calciatori li espone al pubblico ludibrio in televisione, insultandoli e denigrandoli in diretta, altro che Processo del Lunedì. Il figlio di Saddam si rivela un sadico: se i calciatori (sia quelli della nazionale che della sua squadra) ottengono risultati degni di nota vengono ricompensati con denaro, orologi ed automobili, ma se i risultati sono scadenti arrivano le punizioni, galera compresa. Lui lo chiama metodo “thawab e akab“, ovvero premio e castigo, tanto che i giocatori imparano a subirlo con l’Al-Rasheed che vince tre campionati di fila, ma con la nazionale che fallirà la qualificazione ad Italia ’90; in entrambi i casi, Uday applica il suo metodo, infierendo a seconda della gravità della mancanza: in carcere, infatti, i calciatori vengono sottoposti a punizioni di vari gradi, dal dormire a terra senza cuscini e coperte alla rasatura completa di capelli e sopracciglia che per la cultura irachena è una forte umiliazione, fino a pene corporali come bastonate sulle piante dei piedi e successivo lancio in tinozze di letame per creare infezioni alle parti già lesionate.
Cosa ne sia stato dei calciatori al rientro dal Messico nel giugno del 1986 non è dato sapere, anche se qualche giornalista più impavido ha parlato di una notte da trascorrere in una stalla assieme a mucche ed altri animali, mentre altri assicurano che la Federazione abbia graziato i giocatori dopo i torti arbitrali subìti, senza i quali forse la nazionale irachena sarebbe tornata dai mondiali con almeno un punto. L’Iraq non si è mai più qualificato per la fase finale della Coppa del Mondo, vincendo però la Coppa d’Asia in Tailandia nel 2007 battendo in finale l’Arabia Saudita quando già la dittatura di Saddam Hussein era terminata da un pezzo e quando una sconfitta era già vista soltanto come tale in un paese che di gloria calcistica ne ha avuta poca e che nella sua unica partecipazione mondiale ha dovuto fare i conti non solo col campo ma anche con una concezione sadica e distorta della competizione. Altro che De Coubertin….
di Marco Milan