Amarcord: la triste parabola di Paul Vaessen, il killer della Juve
Raccontare la storia di un calciatore che non ha mantenuto le promesse di inizio carriera è esercizio quasi costante per chi segue e si occupa del mondo del pallone, talvolta ripetitivo e forse retorico. Quanto successo a Paul Vaessen, però, esula dalla comune vicenda del talento che non è sbocciato e dà vita ad un racconto molto più serio e drammatico.
Paul Vaessen è inglese, nasce a Gillingham (contea del Kent) il 16 ottobre 1961 ed è figlio d’arte, poiché suo papà Leon Vaessen era un calciatore professionista, noto soprattutto per la sua militanza nel Millwall. E proprio Leon è l’artefice dell’ascesa di suo figlio, del quale intravede talento e capacità, certamente superiori alle sue, probabilmente anche a tanti altri ragazzini dell’età di Paul. Spesso è semplice trasmettere ad un figlio la propria passione e se poi codesta è il calcio, allora tutto è in discesa perché basta far rotolare un pallone in giardino o nel corridoio di casa e il gioco è quasi fatto. Paul Vaessen ci mette effettivamente poco ad intraprendere la strada del calciatore e la passione gli si sviluppa dentro talmente forte che a 13 anni smette di fumare erba per assumere uno stile di vita sano e privo di vizi. Lo stesso discorso, poi, se lo impone anche per l’alimentazione, anche perché il suo fisico è robusto, forse troppo, in quanto sono sufficienti un paio di porzioni in più di patatine fritte o di dolce per far sì che la ciccia attorno ai fianchi aumenti. Ma per il calcio si fa questo ed altro e attorno ai 14 anni il ragazzino viene accolto nelle giovanili dell’Arsenal assieme a tanti suoi coetanei con cui costituisce un bel gruppo dentro e fuori dal campo.
Paul Vaessen è davvero bravo, ha talento e si impegna, è un attaccante atipico per l’Inghilterra, non è il classico centravanti tutto fisico e colpo di testa, ma sa anche arretrare o allargarsi quando la manovra lo richiede. A soli 16 anni, a maggio del 1979, la costanza di Vaessen viene premiata con l’esordio in Prima Divisione nella gara contro il Chelsea, valida per l’ultima giornata di campionato. C’è poco da dire e c’è ancora tanto da crescere e maturare, ma un’emozione simile non ha eguali e ripaga il ragazzo di tanti sacrifici fatti sinora, oltre al fatto che quella ricompensa lo motiva a dare ancora di più per entrare in pianta stabile nel giro della prima squadra. Passa appena un anno, è l’aprile del 1980 e Vaessen è ormai nell’organico dell’Arsenal, certo come riserva, ma non di quelle che ammuffiscono in panchina per far numero, lui entra spesso ed è pure discretamente utile per i biancorossi di Londra che proprio ad aprile sono ospiti dei cugini e nemici del Tottenham. Lo stadio White Hart Lane è pieno e la rivalità tra le due squadre è sentitissima, tanto che per Vaessen sentire e capire bene le indicazioni urlate dal proprio allenatore è un’impresa. Ciò nonostante, il giovane talento segna la sua prima rete in campionato proprio nel derby londinese che l’Arsenal vince per 2-1, guadagnandosi così l’appellativo di eroe di Londra per i suoi tifosi.
E’ un momento magico per lui, sbattuto sulle prime pagine dei quotidiani inglesi che ne acclamano ora la presenza in vista della trasferta di coppa a Torino contro la Juventus. Quella in Italia non è una partita qualsiasi per l’Arsenal, è la semifinale della Coppa delle Coppe, una gara che i londinesi devono vincere quasi per forza dopo lo 0-0 con cui si è chiusa l’andata ad Highbury. Le speranze non sono molte per i biancorossi, a dire il vero, perché la Juve di Trapattoni è squadra forte, perché la fase difensiva è da sempre la migliore caratteristica delle compagini italiane e perché in Europa nessuna formazione inglese finora ha mai vinto al Comunale di Torino contro i bianconeri. Insomma, se è vero che tre indizi formano una prova, per l’Arsenal non sembra esserci scampo la sera del 23 aprile 1980 quando scende in campo in maglia gialloblu contro la Juventus. I britannici attaccano ma non sfondano, Vaessen è in panchina, ogni tanto guarda l’allenatore come a dirgli “che faccio, entro?”, e alla fine Terry Neill lo spedisce in campo per il forcing finale. Maglia numero 13, Vaessen si getta nella mischia nel tentativo di trovare quel gol che valga la finale, mentre il tempo passa e la Juventus si avvicina sensibilmente alla qualificazione. Al minuto 87, però, un cross proveniente dalla sinistra scavalca l’intera difesa juventina, Vaessen si coordina e incoccia la palla di testa mandandola alle spalle di Zoff. Il Comunale è gelato, l’Arsenal vince e passa il turno, il merito è ancora una volta del ragazzino prodigio.
Chi glielo dice ad un ragazzo di neanche vent’anni che la sua carriera finirà praticamente qui? Vaessen segue dalla panchina la finale di Bruxelles che l’Arsenal perde ai calci di rigore contro il Valencia, poi trascorre un’altra stagione da riserva, segna pure qualche gol e sembra pronto per il campionato 1981-82 a giocare con continuità, magari perfino da titolare. Durante un’amichevole estiva, però, i legamenti del suo ginocchio fanno crac dopo un rude contrasto. Cose che capitano, purtroppo, incerti del mestiere che fanno parte della carriera di un calciatore, ma stavolta nell’infortunio di Vaessen c’è qualcosa di più, qualcosa di assai peggiore. La riabilitazione è lunga, troppo lunga secondo l’opinione generale, perché dopo diversi mesi ed un paio di interventi, il giocatore dell’Arsenal è sempre al punto di partenza, ovvero sdraiato a letto. Serve un’altra operazione, poi un’altra ancora, Vaessen cambia chirurgo, clinica, ma niente, l’articolazione è talmente danneggiata che a malapena riesce a stare in piedi e a camminare decentemente. A luglio del 1982 è trascorso un anno dall’infortunio, ma per il ginocchio del calciatore è come se fosse passata un’ora, nessun miglioramento, anzi, dolori sempre più acuti e difficoltà di movimento. E così, la decisione da prendere non resta che una: dire addio. Paul Vaessen si ritira dal calcio a vent’anni ancora da compiere e con una carriera che prometteva tantissimo e di cui si è appena intravisto uno spiraglio.
Oggi, probabilmente, qualche tentativo in più sarebbe stato fatto, ma nel 1982 smettere a causa di un grave infortunio non era inconsueto, così come rara era l’attenzione mediatica di fronte a simili situazioni. Certo, l’ambiente dell’Arsenal rimane scosso dalla notizia, così come tutta l’Inghilterra che sognava già di avere un campioncino in erba pronto per la nazionale in vista degli Europei del 1984 o dei Mondiali dell’86. Ma mentre il calcio prosegue coi ritmi di sempre, per Paul Vaessen si spalancano le porte di un baratro fisico, psicologico ed economico di cui nessuno parlerà mai, ma che per lui si trasforma in un incubo. Soldi ne ha pochi, in più non può fare mestieri pesanti per via del ginocchio che lo costringe a zoppicare e che continua a fargli un male del diavolo; l’Arsenal lo ha abbandonato al suo destino e nessuno sembra dargli un’opportunità, quantomeno lavorativa. Prova a lenire i dolori tornando a fumare erba, ne fuma tanta, probabilmente troppa, perché la sensazione di ebbrezza della marijuana ne rallenta le percezioni, sia a livello fisico che psichico. Il passo verso la caduta definitiva è breve, così come quello dalle droghe leggere a quelle pesanti, del resto arrivare al consumo di eroina a inizio anni ottanta è in tutto il mondo facile come bere un bicchier d’acqua e Vaessen non fa eccezione.
La dipendenza e l’astinenza da eroina lo portano alla mancanza di lucidità, stabilità ed equilibrio, tanto che viene spesso licenziato dai molteplici lavoretti che rimedia. Quello che riesce a mantenere più a lungo è un impiego da postino, ma un giorno si ritrova senza droga e preferisce ciondolare per i sobborghi di Londra alla ricerca di spacciatori piuttosto che consegnare la posta, ritrovandosi nuovamente disoccupato. Passano gli anni e neanche la nascita di un figlio da un matrimonio poi naufragato, lo esorta a cambiar vita, anzi, le cose peggiorano quando l’ormai ex calciatore viene arrestato dopo un goffo tentativo di rapina andato a vuoto. Davanti al giudice, Vaessen fa scena muta ma suscita ugualmente un po’ di pietà, forse per quel passato da calciatore (come affermò il suo avvocato difensore), forse per l’handicap fisico, forse perché è ancora tanto giovane per rovinarsi la vita dietro le sbarre. La sentenza gli impone tre mesi di carcere, sospesi con la condizionale e solo a patto di lasciare Londra e andare a vivere da suo fratello a Bristol, non senza impegnarsi a seguire una cura disintossicante che lo allontani definitivamente dalla droga. Buoni propositi, diversi tentativi, un solo, tragico epilogo.
L’8 agosto 2001 il corpo senza vita di Paul Vaessen viene rinvenuto proprio nella casa del fratello a Bristol. Il medico legale parla di overdose da eroina, i familiari dicono che si sarebbe dovuto operare a breve per scongiurare l’amputazione della sua gamba malandata. Sui giornali esce un trafiletto di tre o quattro righe circa la morte per droga di un uomo, mentre ben più risalto viene dato alla notizia della scomparsa (per cause sconosciute) dell’ex calciatore Paul Vaessen. Solamente 6 mesi più tardi i due fatti verranno ricollegati e ricondurranno unicamente a quell’uomo sfortunato che ha vissuto un ridottissimo squarcio di celebrità in una vita dal destino triste, sfortunato e terribilmente ingiusto.
di Marco Milan
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