Amarcord: Claudio Borghi, il cocco di Berlusconi bocciato da Sacchi

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Se vi chiedessero a bruciapelo quali, a vostro avviso, siano stati i principali protagonisti del Milan di Sacchi, cosa rispondereste? Gullit? Van Basten? Baresi? Maldini? Donadoni? E se qualcuno contestasse le risposte e vi dicesse che uno dei grandi protagonisti è stato Claudio Borghi, voi che faccia fareste? Ma soprattutto, vi domandereste: chi è Daniel Borghi?

Claudio Daniel Borghi è un argentino, nato a Castelar il 28 settembre 1964, di professione centrocampista offensivo, di quelli che un tempo andavano schierati col numero 8 o col numero 10. Di Borghi si notano immediatamente due caratteristiche: una è il talento, l’altra l’indolenza. Quando gli dicono di andare a saltare in area sui calci d’angolo, lui risponde che preferisce giocare con i piedi e che le mischie in area non lo appassionano, quando però la palla ce l’ha lui, beh, è un gran bel vedere. Se ne accorgono in tanti, soprattutto quelli dell’Argentinos Juniors che in fondo di talento se ne intendono visto che hanno svezzato un certo Maradona, poi se ne accorge pure Michel Platini che nel corso della finale Intercontinentale che la sua Juve gioca proprio contro gli argentini nel 1985, rimane colpito dall’estro di quel Borghi che non tarda a definire “il Picasso del calcio“. La stessa impressione, probabilmente, ce l’ha pure Silvio Berlusconi che tempo un anno e mezzo si butta nel calcio acquistando il Milan e annunciando pomposamente che porterà i rossoneri a diventare la miglior squadra del mondo. Qualcuno gli ride in faccia, qualcun altro alle spalle, com’è andata alla fine lo sappiamo tutti.

Quel che conta in questa storia, però, è che Berlusconi non appena si insedia al timone del club milanista si ricorda di quell’argentino che aveva giocato l’Intercontinentale contro la Juventus e un anno dopo decide di acquistarlo. L’Argentinos Juniors sa che non può tarpare le ali al suo gioiello, in più appare a tutti evidente che Berlusconi non abbia problemi di soldi nelle trattative, così nell’estate del 1987 Borghi passa al Milan per 3,5 miliardi di lire, anche se i rossoneri non possono tenerlo in rosa in quanto il regolamento concede solamente la presenza di due stranieri in organico e a Milanello ci sono già Gullit e Van Basten. Borghi, dopo aver giocato e vinto col Milan il Mundialito con in panchina Fabio Capello, finisce così in prestito al Como che milita comunque in serie A e che può regalare all’argentino visibilità e, soprattutto, titolarità così da mettersi in mostra e rientrare alla base l’estate successiva quando sembra ormai ufficiale che l’utilizzo di calciatori stranieri salirà da due a tre. Ma l’impatto di Borghi col calcio italiano non è semplice: il giocatore è svogliato, poco incline a forzare durante gli allenamenti, irritato dalla corsa e per nulla interessato agli aspetti tattici. Lui si esalta solo quando c’è il pallone che rotola, credendo che basti il talento per rendere al massimo in campo.

La serie A è però diversa dal Sud America, è molto più dura e anche i difensori delle squadre più piccole sono mastini allevati a tattica e calcioni, per Borghi giochicchiare col pallone fra i piedi e fare finte di corpo è complicato in Italia, gli avversari non ci cascano quasi mai, lo anticipano o lo spostano agevolmente. Il Como, nella stagione 1987-88, cambia due allenatori, inizia con Agroppi e termina con Burgnich, ma entrambi non vanno a genio a Borghi che li definisce la sintesi dell’anticalcio e gli rimprovera la troppa disciplina: “Ma perché mi dicono sempre cosa non posso fare in campo e mai invece cosa posso fare?”, si lamenta l’argentino con qualche compagno. Il campionato del Como si chiude con la salvezza, quello di Borghi con soltanto 7 presenze, nessuna rete e nessun guizzo degno di nota, tanto che i lariani lo lasciano ripartire per Milano senza particolari rammarichi. Il Milan, che nel frattempo ha vinto lo scudetto dopo una spettacolare rimonta ai danni del Napoli, lo riaccoglie e soprattutto Berlusconi se lo coccola come un figlio, anche perché durante la stagione gli ha spesso telefonato, rincuorandolo nonostante lo scarso apporto fornito alla causa del Como.

Arrigo Sacchi, allenatore milanista, chiede pochi ritocchi alla società per il Milan 1988-89, quello che dovrà dare l’assalto al bis in campionato e a quella Coppa dei Campioni che ai rossoneri manca da vent’anni esatti. Con la possibilità di tesserare un terzo straniero, però, il tecnico avanza una proposta a Berlusconi: “Mi compri Frank Rijkaard, centrocampista olandese del Saragozza, è l’ideale per completare la squadra“. Ma il presidente replica che non si può, i tre posti per gli stranieri sono completi, c’è Gullit, c’è Van Basten e c’è Borghi”. Sacchi ribatte: “Diamo via Borghi, ci è più utile Rijkaard“. Ma Berlusconi non ci sta, è troppo innamorato di quell’argentino tutto genio e sregolatezza, è convinto che il Milan con lui possa essere ancor più spettacolare, mentre Sacchi sostiene che ai rossoneri serva la sostanza, la concretezza e la fisicità di Rijkaard. La diatriba prosegue mentre intanto la squadra si raduna per il ritiro estivo al quale ovviamente partecipa anche Borghi che, esattamente come accaduto con gli allenatori del Como, incomincia ad irritarsi per i metodi di Arrigo Sacchi. Ma mentre gli allenamenti di Agroppi e Burgnich gli erano apparsi semplicemente noiosi e sostanzialmente inutili, quelli di Sacchi gli sembrano vere e proprie torture fisiche e psicologiche: il tecnico romagnolo, infatti, spreme i muscoli dei giocatori come limoni e nella parte riservata alla tattica urla col megafono i concetti e li ripete sino all’ossessione.

Borghi è stremato, dopo una settimana non ne può già più, parla con Filippo Galli che è uno dei migliori amici che ha nello spogliatoio, gli confessa che è stufo di quei ritmi e il difensore gli consiglia di darsi da fare perché quell’allenatore ha già rappresentato una svolta importante per il Milan e per il calcio italiano e va seguito con attenzione; poi gli suggerisce di andarci a parlare, di spiegarsi. Borghi va da Sacchi, ma naturalmente sbaglia i modi: “Mister – gli dice – ma a cosa serve correre per 5 km se il campo da calcio è lungo 100 metri?”. Neanche male come battuta, ma Sacchi sul lavoro scherza poco e niente, gli risponde qualcosa del tipo “zitto e lavora” e la comunicazione tra i due finisce là. Non ci siamo, sembrano il Diavolo e l’acquasanta, uno rigido ed integerrimo, tutto regole, lavoro e sacrificio, l’altro un coacervo di anarchia, svogliatezza e improvvisazione. La convivenza è insomma impossibile, inoltre Sacchi ha accumulato credito nei confronti della società vincendo lo scudetto al primo colpo e dimostrandosi perfetto nella gestione e nella motivazione del gruppo, così alla fine anche Berlusconi si arrende, dice addio al suo pupillo e regala all’allenatore il suo tanto agognato centrocampista olandese che raggiunge a Milanello i suoi connazionali Gullit e Van Basten. Borghi viene ceduto agli svizzeri del Neuchatel Xamax, poi farà ritorno in Sud America dove giocherà in Argentina e in Cile, senza però mai ripetere le prestazioni di inizio carriera e finendo presto nell’anonimato.

Alla fine, la storia ha detto che aveva ragione Arrigo Sacchi, perché ci ha consegnato un Milan pressoché perfetto, vincitore della Coppa dei Campioni sia in quel 1988-89 e sia l’anno dopo quando proprio un gol di Rijkaard deciderà la finale di Vienna contro il Benfica. Anche Berlusconi ha negli anni dato ragione al suo ex allenatore, pur non rinnegando stima ed affetto per Borghi, da tutti ormai definito il suo “cocco“. Chissà cosa sarebbe cambiato se Sacchi non avesse avuto la personalità e la capacità di persuasione di convincere Berlusconi e il Milan avesse tenuto Borghi lasciando perdere Rijkaard. Non lo sapremo mai, ovviamente, ma tanto basta per ricordare l’argentino come il pomo della discordia fra i due e, paradossalmente, anche lui indiretto protagonista di una delle squadre più belle della storia del calcio.

di Marco Milan

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