Amarcord: il disastro del Luzniki, una strage sotto silenzio

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Se chiediamo ad un tifoso di calcio qualsiasi di raccontarci il dramma più grande vissuto in uno stadio, probabilmente risponderà parlando dell’Heysel del 1985 quando persero la vita 39 persone prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool. Forse perché quella partita la stavano guardando tutti e perché la tragedia è andata in eurovisione, comunque perché se ne è scritto e parlato. E in pochi sanno che qualcosa di simile (ma con quasi il doppio delle vittime) era accaduto 3 anni prima a Mosca, una strage terribile e clamorosamente sepolta.

All’inizio degli anni ottanta l’Unione Sovietica è in grande difficoltà, è una nazione che si sta progressivamente accartocciando su sé stessa, boicottata dagli Stati Uniti (embargo del 1980), arretrata dal punto di vista sociale e tecnologico, al punto che in molti definiscono l’U.R.S.S. come uno stato ancora fermo agli anni sessanta. Il governo sovietico sa ma non risponde, sente ma non parla, capisce ma fa finta di niente, tutto deve rimanere inalterato e la nazione deve mostrarsi forte in ogni caso. E allora qualsiasi intoppo, qualsiasi inconveniente, qualsiasi segnale negativo non dovrà essere divulgato, perché metterebbe l’intero paese alla berlina dell’Europa e del mondo, nonché in una posizione di debolezza rispetto agli altri. E invece l’U.R.S.S. deve continuare a rappresentare unione, forza e compattezza, niente si può permettere di scalfire questo concetto. E’ necessario partire da tali basi ed inquadrare il contesto storico di quegli anni per presentare una storia sporca che col passare del tempo si è inacidita, è andata a male come uno yogurt scaduto, è divenuta ancora più marcia, al punto che il puzzo è diventato così forte da far capolino anche al di fuori della Russia.

E’ il 20 ottobre 1982 quando allo stadio Luzniki di Mosca (ancora denominato Stadio Lenin) scendono in campo i sovietici dello Spartak Mosca e gli olandesi dell’Haarlem per l’andata dei sedicesimi di finale della Coppa Uefa. E’ una sfida che passa abbastanza inosservata nel panorama delle gare di coppa di quelle settimane, anche se qualche motivo di interesse c’è ugualmente: lo Spartak, ad esempio, nel turno precedente ha fatto fuori l’Arsenal e gode dunque di qualche grado in più di rispetto, nell’Haarlem, invece, milita un giovane attaccante di cui si dice un gran bene e che si chiama Ruud Gullit. La caratteristica di quella sera è la presenza allo stadio di quasi 20 mila spettatori nonostante il freddo (il termometro dice -8 all’ingresso in campo delle due squadre) e pur essendo ancora in ottobre; evidentemente le ottobrate moscovite non sono simili a quelle romane, famose per cielo limpido, sole ed ultimo minuscolo barlume d’estate. Ma, del resto, lo Spartak è la squadra di Mosca più popolare, è la squadra della gente, degli operai, al contrario dei poliziotti della Dinamo, dei ferrovieri della Lokomotiv e dei militari del CSKA. Tanto basta, dunque, ad attirare spettatori allo stadio Luzniki, infreddoliti, muniti di coperte, cappelli, guanti e giornali appiccicati sul torace per attutire il gelo, ma comunque presenti.

Gran parte dell’impianto è comunque gelato e allora la maggior parte dei tifosi viene concentrata in unico settore, prontamente pulito, asciugato e meglio organizzato prima dell’inizio della partita. La gara, onestamente, ha poco da dire, lo Spartak è molto più forte dell’Haarlem, segna già nel primo tempo con un bellissimo gol del fantasista Edgar Gess, poi bada più a gestire il risultato che ad attaccare, anche perché col passare del tempo il freddo aumenta, gli stessi calciatori (che pure hanno i muscoli già caldi e la circolazione sanguigna ben attiva) battono i denti e qualche pallonata sulla coscia o sulle mani fa più male del solito. Le condizioni atmosferiche sono al limite, non piove, non nevica, fa solo freddo, ma un freddo quasi insostenibile per quei tifosi che a circa dieci minuti dal 90′ non resistono più e iniziano ad avviarsi verso l’uscita, con l’unico obiettivo di raggiungere al più presto la macchina e fiondarsi a casa sotto le coperte, magari dopo una doccia bollente. D’altro canto, la partita sta ormai volgendo al termine e l’impressione è che ulteriori colpi di scena non ce ne saranno, anzi, sembra che pure le due squadre non vedano l’ora di chiudersi dentro gli spogliatoi.

Al minuto 88, però, proprio mentre gran parte dei tifosi sta abbandonando lo stadio a passo lento e con i piedi intorpiditi dal freddo, il difensore Sergej Svecov sigla il gol del 2-0 per lo Spartak Mosca. E’ l’inizio della fine: i tifosi rimasti sulle tribune esultano e le loro urla richiamano quelli che si stavano allontanando, i quali, eccitati e forse risvegliati dall’esultanza, provano a tornare indietro, qualcuno cerca di farlo in fretta, qualcun altro si gira solamente verso il campo, allunga il collo alla ricerca di un segnale, quasi istintivamente, come se voltarsi e rientrare sugli spalti desse vita ad un replay del gol. Nessuno però ci riesce, perché la polizia blocca l’ingresso, quindi i tifosi che stanno tornando indietro fanno di nuovo dietrofront ma si ritrovano incastrati fra quelli che stanno uscendo: urla, imprecazioni, qualche piede pestato involontariamente e il dolore acuito dal freddo, qualcuno che cade e viene accidentalmente calpestato e schiacciato da altri. In pochi si rendono conto di quanto sta per consumarsi, fatto sta che in una manciata di minuti l’uscita dello stadio è presa d’assalto, molta gente resta schiacciata, altri riescono a sfondare il cordone di polizia ma scivolano sul ghiaccio. I tifosi rimasti sugli spalti iniziano ad uscire perché nel frattempo la partita è finita, e allora si rendono conto della tragedia, assistono a scene disumane, a persone che scivolano e ad altre che ci passano sopra come fossero tappeti, altri schiacciati contro le cancellate e che disperatamente agitano le mani per farsi spazio e respirare.

Arriva qualche ambulanza, i poliziotti sono frastornati, qualcuno ha più personalità e ordina agli altri di non farsi prendere dal panico e, soprattutto, di non fornire particolari ai tifosi che erano rimasti dentro e che ora provano a defluire. Perfino alle due squadre viene ordinato di lasciare il prima possibile lo stadio, senza far domande e senza fermarsi a guardare, tanto che qualche calciatore olandese teme possa essere in corso un attentato terroristico o qualcosa di simile. Fatto sta che nessuno fa domande, i tifosi e i calciatori dello Spartak rientrano a casa, quelli dell’Haarlem se ne tornano in Olanda con lo 0-2 sul groppone e la spiacevole sensazione di essere stati inconsapevolmente testimoni di una serata maledetta. Quando tutti lasciano lo stadio e l’eco delle ambulanze è ormai lontano, sul Luzniki restano le anime di 67 persone, schiacciate dalla ressa come api impazzite, intrappolate in un’arnia troppo piccola per contenerle tutte. Eppure, sui giornali del giorno dopo si legge di qualche piccolo incidente a fine partita, dovuto al suolo ghiacciato e alla troppa fretta di qualche tifoso che voleva tornare in fretta a casa. Dei morti nessuna menzione ed anche le circostanze vengono narrate vagamente, in minuscoli trafiletti che probabilmente passano quasi inosservati agli ignari lettori. Addirittura su alcuni quotidiani sovietici generalisti, si parla di “partita di calcio“, senza neanche entrare nel merito.

La strage viene insabbiata, gli organi di governo impongono il silenzio ai poliziotti che erano presenti allo stadio, mentre i testimoni oculari che provano a parlare con forze dell’ordine o magistratura vengono messi a tacere dopo pochi secondi. L’inchiesta è una farsa, sulla vicenda cala un muro di omertà così alto che ben presto quasi nessuno ha interesse o facoltà di arrampicarsi per vedere cosa ci sia al di là dei mattoni. Per anni e fino al crollo dell’Unione Sovietica, della tragedia del Luzniki non si parla, poi il muro crolla, uno dei primi a parlare è Jurij Pancichin che all’epoca dei fatti era uno dei custodi dello stadio, assunto da neanche un anno, che aveva visto tutto e addirittura cercato di trarre in salvo qualche sventurato tifoso. Pancichin dice che gli fu imposta una verità dalle autorità, che avrebbe dovuto ammettere qualche colpa senza entrare nello specifico e che, anzi, si sarebbe dovuto addossare una sorta di responsabilità morale dell’accaduto. Il custode, nell’inchiesta farsa, era stato condannato a scontare una pena di 3 anni (poi ridotta della metà), diventando sostanzialmente il capro espiatorio di un dramma mai approfondito e spiegato nel dettaglio. Ai parenti delle vittime era stato vietato di far scrivere sulle lapidi la causa della morte, inoltre voci provenienti da ambienti militari russi parlano di decine e decine di certificati di morte falsi redatti quella sera per collocare molti di quei decessi in altre zone della città, allontanandoli così dal Luzniki.

La triste vicenda dello stadio di Mosca ha visto la luce solamente alla fine degli anni ottanta, scoperchiando una verità tenuta nascosta e mettendo in dubbio anche l’esatto numero delle vittime, ad oggi ancora incerto; ufficialmente i morti sarebbero 67 e con altrettanti feriti, ma è altamente probabile che a perdere la vita quella sera di ottobre siano stati molti di più, calcolo impossibile da effettuare dopo decenni. Solamente all’inizio degli anni novanta verrà dato il permesso di erigere un monumento all’entrata dello stadio per ricordare i caduti del 20 ottobre 1982, mentre nel 2007 una rappresentanza delle due squadre ha dato vita ad una gara amichevole nel ricordo di quella drammatica serata e che aveva lo scopo (anche simbolico) di accendere finalmente i riflettori su una strage di cui per anni nessuno ha saputo nulla e che nell’allora Unione Sovietica era meglio tener nascosta, inizialmente per convenienza, poi forse anche per vergogna. Nessuno ha mai capito cosa sia realmente accaduto quella sera e chi ha visto non ha potuto o voluto parlare, o magari entrambe le cose, e quando la vicenda è diventata di dominio pubblico, la verità era ormai purtroppo ampiamente interpretabile.

Anni dopo la tragedia, l’autore del secondo gol dello Spartak Mosca che aveva involontariamente dato vita alla strage dirà: “Quel gol non lo avrei dovuto mai segnare“. Si chiama Sergej Svecov, faceva il difensore e maledice una delle sue poche prodezze di una carriera senza acuti, perché indiretta protagonista di una strage e perché il suo nome sarà per sempre legato ad una serata finita nel dramma. Ad oggi, nessuno dei governi che si sono succeduti in Russia ha mai pubblicamente chiesto scusa per la vicenda e per come venne messa a tacere.

di Marco Milan

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