Avere 23 anni, vivere a Parigi e osservare il Ramadan
di Alessandra Vitullo
Mentre cerco di rammentare quello che mi è stato insegnato sul Ramadan, mi tornano in mente vari ricordi, visi ed elementi, ma l’immagine più forte è quella delle cinque dita di una mano alzata, con il palmo rivolto verso la mia faccia.
Così con Houda iniziamo a parlare di Ramadan. Personalmente sono sempre rimasta incuriosita da questa ricorrenza. Per me, bambina, adolescente, ragazza, europea, abituata da sempre a collegare le festività alle immagini di tavole imbandite di primi, secondi, contorni e dolci di ogni tipo; pensare a una festa dove non si mangi e per di più per un mese, mi era sempre parso il peggior incubo per nonne e mamme italiane. La mia conoscenza dell’argomento non è mai andata oltre questo punto, il folklore. Fino a quando, a qualche giorno dalla fine del Ramadan, mi ritrovo a parlare con Houda. Houda ha 23 anni, e da cinque anni ha lasciato il Marocco per studiare Scienze politiche prima a Roma e poi a Parigi, è una ragazza musulmana completamente immersa nella cultura occidentale, e questo rende il suo racconto qualcosa di veramente diverso da una semplice spiegazione del Ramadan…
Lungi dall’idea di una qualsiasi manifestazione di violenza, l’immagine di questa mano non era altro che un modo al quale ricorrevano genitori, maestre e maestri, per farci imparare a memoria i cinque pilastri dell’Islam. Cominciando con il pollice, si alzava, da un pugno chiuso, un dito per ogni pilastro: a’shahada, a’ssalate, a’zzakate, al’hajj, a’ssaum.
Quest’ultima parola significa “digiuno” e, nel suo suono monosillabico, contiene l’immensa importanza di quel periodo di astinenza che i musulmani osservano una volta l’anno, dal primo all’ultimo giorno del nono mese del calendario islamico. Contrariamente al calendario gregoriano, quello che per noi assume una dimensione sacrosanta in ben poche occasioni, è un calendario lunare. I miei connazionali lo prendono in considerazione così poco che, per quanto abbia una buona memoria, non sarei in grado di citare tutti i mesi che precedono e seguono il mese più temuto e meno vissuto dell’anno, il mese della Rivelazione e della discesa degli angeli sulla Terra, il mese del Ramadan.
Così come gli altri quattro pilastri, e insieme al divieto dell’alcool e della carne di maiale, il saum (digiuno) è uno di quei precetti che vengono inculcati ad ogni bambino e bambina sin dalla sua tenera età. Di solito, viene giustificato tramite una spiegazione allo stesso tempo umanista e religiosa: “non si mangia e non si beve dall’alba al tramonto per provare quello che provano i poveri e i mendicanti…solo soffrendo come soffrono loro tutti i giorni, possiamo renderci conto – più di prima – della fortuna che abbiamo e, quindi, compiere il nostro dovere: ringraziare Allah”. Con il passar del tempo, questa spiegazione prende spesso una terza connotazione, non più metafisica, ma fisica tout court. Si dice che il corpo abbia bisogno di riposo e di pulizia interna e che l’astinenza dal cibo e dall’acqua aiutino a trovare non solo una pace morale ma anche una pace fisica.
Dato il grande sforzo fisico che comporta, esistono delle eccezioni o delle differenze tra le persone che devono osservare il Ramadan?
La messa in pratica di questo precetto non è obbligatoria per i più piccoli. E’ solo con il passaggio dall’infanzia alla pubertà che il digiuno diventa obbligatorio per ragazzi e ragazze. L’età non è predeterminata, dipende dall’evoluzione del corpo di ognuno. Quelle poche volte in cui capita ai bambini di seguire l’esempio dei genitori, il digiuno diventa una sorta di gioco al termine del quale si vincono dolci, caramelle o soldini. La regola di base è quella di non cedere alle tentazioni e ai brontolii dello stomaco per almeno cinque ore. Ogni fase compiuta viene virtualmente “cucita” dalla mamma con le altre fasi fino a comporre una giornata intera di digiuno. Il gioco del cucito è naturalmente volto ad abituare i bambini a resistere, a renderli il loro prossimo Ramadan più piacevole e meno arduo.
Non è neanche obbligatorio per tutti gli adulti. Le persone malate, gli anziani e coloro che devono compiere un viaggio lungo e faticoso non sono tenuti a farlo. L’esenzione dal digiuno dipende dalla gravità della malattia, dall’intensità del dolore e dalla coscienza del fedele. Inoltre, le donne sono avvantaggiate rispetto agli uomini perché gli è sempre concesso mangiare e bere durante il periodo mestruale e i mesi di gravidanza.
In altre parole, quello che bisogna ritenere rispetto all’obbligatorietà del Ramadan è che i musulmani devono digiunare solo se le loro condizioni fisiche glielo permettono e se una tale astinenza non comporta gravi rischi per la salute. Ai tutti coloro che sono stati dispensati, è altamente raccomandato “restituire” gradualmente i giorni consumati, entro l’inizio del Ramadan successivo.
Quali difficoltà comporta a un musulmano seguire il Ramadan in un paese non islamico? Per te che vivi a Parigi quanto è difficile rifuggire dai ritmi e dal consumismo di una metropoli?
Fino a quando abitavo in Marocco, non avevo molte difficoltà nel fare il Ramadan, per tre motivi. Prima di tutto, perché ero fermamente convinta della spiritualità e della logica che vi si trovavano dietro. In secondo luogo, perché durante quei cinque anni in cui ho digiunato, il Ramadan è capitato in inverno e in autunno, quando l’intervallo tra l’alba e il tramonto è relativamente corto, quindi l’astinenza alimentare era più sopportabile e meglio compatibile con i vari impegni scolastici e sportivi che potevo avere. A questi fattori si aggiunge la forza del contesto socio-culturale: il fatto che lo facciano tutti – o quasi -, che ogni azione e istituzione sia condizionata dallo svolgersi del Ramadan formano insieme l’ultimo motivo per il quale ho regolarmente e seriamente digiunato.
Da quando mi sono trasferita all’estero, questi tre motivi sono venuti ad indebolirsi notevolmente o a mancare. Sono vissuta per vari anni in ambienti laici, ho avuto l’opportunità di allargare i miei orizzonti culturali e conoscitivi, sono cresciuta in società in cui mi sono integrata ma che in fondo non erano proprio mie e che quindi non mi condizionavano…tutto questo mi ha permesso di riflettere, di pensare e di agire liberamente, senza subire la forza di trascinamento di una società intera, il peso delle sue tradizioni e della sua cultura. La mia concezione della religione e della pratica del Ramadan è radicalmente cambiata. Tuttavia, non ho mai smesso di digiunare quando le mie condizioni fisiche e i miei impegni universitari me lo hanno permesso.
In questo mio paradosso, la più grande differenza rispetto agli anni in cui vivevo in Marocco è stata ed è tuttora l’assenza di convinzione religiosa. Non penso che la sofferenza sia utile nel rafforzare la fede del credente e, più di ogni cosa, non penso assolutamente che la frenesia alimentare alla quale i credenti si dedicano a partire dal tramonto li porti sulla via della compassione o dell’equilibrio corporeo!
Ad un livello più pratico, un Ramadan in terra straniera mi porta a vedere il mondo che mi circonda come un altro mondo, con i suoi ritmi ed orari. Un mondo al quale divento, da un giorno all’altro, completamente estranea osservandolo da lontano e creandomi nuovi punti di riferimento. La caduta nel letargo psico-fisico diventa la mia nuova costante di vita fino al giorno che segna la fine del Ramadan e l’inizio di Shawwal, fino all’Aid el Fitr.
Nel mio digiuno solitario, nei giorni in cui devo affrontare in media venti ore di astinenza, non c’è altro che amore e rispetto per i genitori. A loro devo tutto e so che ci tengono molto. Non fosse per questo, non sarei mai riuscita a sopportare le temperature estive, a resistere al desiderio di bere acqua, alla voglia di prendere il sole, di nuotare, di leggere più di venti pagine al giorno, di passeggiare, di riunirsi intorno ad un caffè…di vivere normalmente. E’ soltanto per i miei genitori che ho continuato a farlo.
E nella comunità islamica, nello specifico quella marocchina che tu hai modo di vivere e osservare direttamente, che significato pensi abbia nel 2012 il Ramadan?
“Allah, Al-Watane, Al-Malik” – – – “Dio, Patria, Re”
Tuttoggi, in Marocco, ci sono milioni di analfabeti e di persone che sono nell’impossibilità di interrogarsi su determinati argomenti, di rimettere in questione una serie di pratiche. Non è un caso se insieme al culto della patria e alla venerazione della famiglia reale, la religione è la terza componente della “devise” del Marocco. L’inno nazionale si conclude con queste tre parole che, noi marocchini, non possiamo dimenticare anche perché sono gravate in dimensioni giganti all’entrata di ogni città e appaiono su molteplici cartelli pubblicitari sparsi nel Regno.
Benché ci sia stata una fase di liberalizzazione con il sovrano attuale, queste tre componenti continuano ad essere argomenti tabù nella società marocchina e per la stampa, che non scappa mai alla censura.
Foto copertina di Tahiri L. Houda