“La foto nella scatola”: dal libro “Incontrarsi” il racconto di una nostra redattrice
di Sabrina Ferri
Donne dalle più svariate parti del mondo, donne con il velo, donne dalla pelle più chiara, donne dalla pelle più scura, in una sala gremita di gente i loro occhi e le loro storie si sono intrecciate per qualche ora. Nell’ambito del Salone dell’Editoria Sociale di Roma, lo scorso 20 ottobre è stato infatti presentato il libro Incontrarsi (già recensito da Mediapolitika), un’antologia di trentaquattro racconti scritti da donne migranti e native e frutto dell’omonimo concorso letterario indetto dalla Casa Internazionale delle Donne.
Dopo alcuni brevi interventi, tra i quali quello dell’assessore alle Politiche culturali, Cecilia D’Elia, delle scrittrici di origine somala Igiaba Scego e Cristina Ali Farah, della scrittrice Maria Rosa Cutrufelli, dello scrittore Alessandro Leogrande, è stato lasciato spazio alle emozioni, quelle più autentiche e quelle più intense. Attraverso una voce narrante, dietro il suono melodico/malinconico di una tromba, hanno preso vita i dieci racconti vincitori e le voci delle autrici si sono poi susseguite l’una dopo l’altra, lasciando trapelare anche il dolore legato, spesso, alla presenza di una società ancorata a stereotipi razzisti e xenofobi.
Ma, alle volte, basta semplicemente ascoltare, fermarsi, aprirsi al dialogo e allo scambio reciproco per comprendere come l’incontro tra culture possa essere fonte di ricchezza interiore.
Oggi ho deciso di svestire un po’ i panni di redattrice. Anche io ho partecipato al concorso Incontrarsi e credo di aver vissuto una delle più belle esperienze della mia vita. Un mio racconto è lì, nel libro, immerso tra quegli altri trentatré racconti che mi hanno permesso di conoscere nuovi mondi e, allo stesso tempo, di osservare la vita tramite lo sguardo di tante altre donne.
La foto nella scatola è il racconto che dedico a tutti i lettori di Mediapolitika. Buona lettura!
Una sola lacrima scese lungo il suo volto puntellato di efelidi. Era trascorsa una vita eppure in tutti quegli anni non l’aveva mai dimenticata. Ora, nella scatola dei ricordi, tra cartoline e biglietti d’auguri, la ritrovava esattamente così come l’aveva lasciata. Una foto sbiadita dal tempo ne dipingeva il corpo longilineo nascosto dietro un vestito verde smeraldo, il viso corrucciato contornato dallo chador. Sara chiuse gli occhi ed inspirò fino a sentire l’odore del mare. Attorno a lei albergava un silenzio irreale interrotto soltanto dal crepitio delle fiamme nel caminetto.
«Questo non è il mare. Questo è il paradiso». Doris ha l’emozione nel petto. È un tiepido pomeriggio di maggio, uno di quelli nei quali dormiresti per ore sotto al sole senza avere paura di bruciarti la pelle, uno di quelli in cui di studiare non se ne vuole proprio sentire parlare. Sara la guarda e sorride. Si conoscono da poco meno di un anno ma il loro legame è già così forte che non basterebbe una tempesta a spazzarlo via. Sono diverse ma uguali, entrambe scarti di una società che pretende di essere perfetta, entrambe incomplete, sbagliate, inesatte per un mondo che rigetta tutto ciò che non è come dovrebbe essere. Doris con il suo essere musulmana, Sara con il suo essere paraplegica. In una classe del quarto liceo si sono incontrate e trovate, come due punti estremi congiunti da una linea nello spazio.
Doris si toglie le scarpe, corre a perdifiato sulla spiaggia. Il velo, accarezzato dal vento, che svolazza ad ogni suo movimento.
«Perchè non te lo togli?» le domanda Sara a bruciapelo.
Doris si lascia cadere sulle ginocchia mentre le mani affondano perdendosi sotto ai granelli. «Sai che non posso. Mio padre non vuole…» sussurra in un filo di voce.
«Fa niente, dai. Girati che ti faccio una foto!»
La fotocamera fa clic. Scatta. Ma quando l’occhio si allontana dall’obiettivo coglie un’espressione cupa sul volto di Doris.
Sara caccia la macchinetta nella borsetta che tiene sulle ginocchia e si avvicina all’amica con le mani ben salde sulle ruote. La sedia a rotelle cigola e con fatica si sposta tra i cumuli grigi di sabbia.
«Allora, perché quella faccia?»
Doris si sporge quel poco che basta per posare la sua mano su quella di Sara. Ed improvvisamente scoppia in un pianto fragoroso. Piange per se stessa, per Sara, piange per la vita che vorrebbe ma che non può avere.
«Io voglio essere libera, Sara. Non lo voglio questo velo, non voglio essere picchiata da mio padre ogni volta che vengo sorpresa allo specchio con i capelli liberi e gli occhi truccati, o per un vestito come questo, o quando parlo con te al telefono. Lui vorrebbe che la mia vita da occidentale si limitasse alla scuola. Ma io non posso vivere senza di te».
«Nemmeno io posso vivere senza di te. E sai che ti dico? Che sono stanca anche io. E che è arrivato il momento di essere libere…»
«Che intendi dire?» domanda Doris alzandosi e ripulendosi i palmi dalla sabbia.
«Portami sulla riva».
Il vento si è alzato un po’, sulla riva il vento tira più forte. In lontananza delle boe galleggiano sul pelo dell’acqua. Sara si aggrappa con forza ai braccioli della sedia. A quel mare vuole promettere la sua libertà. Così il bacino scivola in avanti, le gambe si allungano tremanti e incerte, i piedi toccano terra. E forse per miracolo, o per determinazione, Sara ce la fa, per pochi istanti è in piedi, per pochi secondi è libera, di nuovo. Poi cade, si bagna, i capelli si inzuppano ed i vestiti si infradiciano. Ma non importa. Sara adesso ride, ed è felice.
«Visto? Ora tocca a te!»
Doris non ci pensa due volte, il velo scivola via lasciandole scoperta una folta chioma nera. Sospira. Lo lancia. Lo chador vola, si muove nell’aria, si adagia sulle onde, si allontana trascinato dalla corrente.
«Ecco» dice Sara arrampicandosi sulla sua sedia «adesso siamo libere. E nulla e nessuno potrà farci tornare indietro».
La foto le cadde dalle mani. Quello sarebbe stato l’ultimo giorno. Doris non sarebbe mai più tornata. Doris non avrebbe mai più sorriso con lei.
Il banco è vuoto, Doris non c’è. La lezione continua, il professore parla ma la sua voce è un ronzio lontano. Lui l’ha presa, lui l’ha ammazzata. È colpa sua se è morta.
Al rientro lui l’avrebbe picchiata. Due, tre, cento, mille volte. Dov’era il velo? Dov’era? E quel vestito così scoperto? Lei avrebbe preso un coltello dalla cucina, pensando a Sara prima di affondare la lama nel suo petto. Poi lo avrebbe fatto. Per essere libera. Per sempre.
Sara torna alla spiaggia. E’ sola questa volta. Una pioggia sottile le inumidisce il viso. Il cielo piange, è un giorno triste dopotutto. Sara si perde nei suoi pensieri. È un sussurro, o forse una semplice sensazione a riscuoterla. Nel vento percepisce una presenza. Finalmente Doris è qui, sa che non la lascerà mai più.