Diario da Taranto – Chi non lavora, non fa l’amore
di Greta Marraffa
“Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo
la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo
pausa pausa , ritmo lento, pausa pausa ritmo lento”
(Enzo Del re- lavorare con lentezza)
Ribellarsi è giusto. Lo è ancora di più quando sei un lavoratore sfruttato e malpagato, quando lavori in nero, costretto a svolgere mansioni massacranti ed alienanti. Quando ti rendi conto di non poter fare affidamento sul futuro e che la felicità e la stabilità sono come l’orizzonte, irraggiungibili.
Esprimere il dissenso è sacrosanto quando sei un lavoratore del call center, un lavoratore atipico, quando il tuo contratto di lavoro è soggetto a scadenze triennali, quando sei un “parasubordinato” o ti hanno assunto come “stagista”, quando ti accorgi che tornando la sera a casa hai il mutuo da pagare e vorresti disperatamente concederti e dedicarti al tempo libero e alle tue passioni, ma tu non puoi: i ritmi frenetici e la precarietà quotidiana prosciugano completamente la tua essenza e la tua vitalità.
Allora dissentire diviene anche un dovere. Perché la tua vita o la tua storia non sono solo numeri di percentuali o statistiche, poiché dietro ad ogni volto si nascondono le contraddizioni e i vissuti, che la crisi tenta incessantemente di eclissare.
Uno dei più grandi call center del paese:,“Teleperformance”, aveva dichiarato 621 licenziamenti a Taranto, 164, invece, a Roma-Fiumicino con il ricorso alla mobilità. La trattativa lunga ed estenuante presso il Ministero del lavoro ha condotto ad un accordo positivo che risponde all’obiettivo perseguito dalla società di porre le basi per il rilancio dell’azienda salvaguardando i livelli occupazionali. Non ci sarà neanche la riduzione dell’orario di lavoro che Teleperformance aveva chiesto al fine di migliorare la propria situazione economica: le ore di lavoro restano sei e non caleranno a quattro come la società inizialmente aveva proposto.
Il procurato allarme di una possibile “ecatombe sociale” si inserisce in un contesto già fortemente danneggiato dagli effetti di una crisi epocale, che colpisce maggiormente la “carne viva” della gente comune, contribuendo a rafforzare un senso diffuso di solitudine e spaesamento. Si assiste perciò ad una rottura della coesione di gruppo, in una società che non fa nulla per sottrarre il lavoratore alla sua emarginazione.
“I lavoratori non sono depressi, sono oppressi”- così afferma Renato Curcio alla presentazione del suo libro “Mal di Lavoro”, svoltasi al Teatro Tatà a Taranto, nel quartiere Tamburi. “Occorre ripensarsi, ricostruire il concetto di lavoro, rifiutando di credere che proprio questo tipo di lavoro, sia qualcosa di normale”. “Nei call center”- continua sommessamente l’intellettuale -“vi è una vera e propria competizione di sopravvivenza”.
Il “mal di lavoro” è un sentimento comune, strettamente legato al concetto più volte teorizzato da Guido Viale del “There is not alternative”(Tina)-non ci sono alternative- secondo cui questo “male necessario” è un portato inevitabile di questa civiltà. E’ qualcosa di naturale, quasi come il dissetarsi o il susseguirsi delle stagioni.
Negli ultimi trent’anni dal 1980 ad oggi, si è assistito ad una vera e propria contro rivoluzione, in cui tutte le conquiste sociali, sindacali ed anche politiche sono state immolate alla “religione della produttività”, in cui se prometti di non ammalarti, di non procreare e costituire una famiglia e di non batterti per i tuoi diritti, potrai un giorno avere qualche ricompensa salariale.
I dispositivi dello sfruttamento del lavoro sono destinati ad intensificarsi dentro e fuori l’azienda, dentro ed oltre la crisi globale. Riporto un frammento interessante tratto dal saggio “Il lavoro non è una merce” di Luciano Gallino:
“I lavori flessibili comportano rilevanti costi personali e sociali a carico dell’individuo, della famiglia e della comunità. Ciò avviene perché tali lavori non sono soltanto un modo diverso di lavorare. Essi sono percepiti, alla lunga, come una ferita dell’esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione di diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati”.