Amarcord NBA. Il decennio dello showtime

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ShowtimeUna delle pagine più belle per gli appassionati di basket è il decennio che va dal 1979 al 1989, dieci anni dominati dai Los Angeles Lakers, dieci anni in cui si impose uno stile di gioco spettacolare e forse irripetibile. Dopo il successo ottenuto con Wilt Chamberlain i Los Angeles Lakers non avevano più raggiunto una finale NBA, nel 1979 il proprietario della franchigia Jack Kent Cooke cedette la squadra ad un giovane Jerry Buss, al tempo grande imprenditore immobiliare e petroliere, negli anni a venire presidente anche dei Los Angeles Strings (squadra del World Team Tennis, il campionato americano di tennis), dei Los Angeles Kings (la squadra di hockey su ghiaccio della città degli angeli), delle Los Angeles Sparks (team del campionato femminile NBA, la WNBA) e dell’impianto sportivo “The Forum”.

A Los Angeles da qualche stagione c’era già un giovane Ferdinand Lewis Alcindor Junior, il ragazzo ha una storia particolare, che non può non essere raccontata. A 13 anni è già alto due metri, gli insegnanti di basket gli spiegano che con le sue doti fisiche non può accontentarsi di essere uno dei tanti. A New York nella sua high school, la scuola cattolica Power Memorial raggiunge nei quattro anni in cui lui gioca per loro il record di 96 vittorie e solo 4 sconfitte, vincendo il titolo statale per tre anni. Le Università americane fanno a gara per offrirgli una borsa di studio, decide di spostarsi a Los Angeles ad UCLA, durante questo periodo perde solo due partite, la NCAA (federazione dello sport universitario americano) preoccupata dal suo strapotere fisico varerà una nuova regola per impedire nelle partite universitarie l’uso del gesto atletico della schiacciata, il più spettacolare movimento di uno sport che basa molto del suo appeal proprio sulla spettacolarità. Non ci sono solo gioie nel suo periodo universitario, Ferdinand inizia a provare droghe (LSD ed eroina) ed ad impegnarsi politicamente, combatte per i diritti degli afroamericani, come altre star del tempo (Muhammad Alì, Tommie Smith e John Carlos). Convocato dalla nazionale statunitense di pallacanestro per le Olimpiadi del 1968 in Messico decide di rifiutare la chiamata perché non vuole rappresentare un paese dove non sono garantiti i diritti ai cittadini di colore. Stecca solo la prima partita mandata in diretta TV della sua squadra di college, contro University of Houston scende in campo nonostante abbia subito qualche giorno prima un graffio sulla cornea il che gli impedisce di vedere nitidamente e di allenarsi per il big match. Contro di lui c’è un altro grande centro Elvin Hayes che lo umilia. Pochi mesi dopo le due squadre si riaffrontano in semifinale NCAA i suoi Bruins vincono 100-64. Viene draftato nel 1969 da una franchigia nata solo un anno prima, i Milwaukee Bucks, per approdare in NBA rifiuta anche un contratto milionario con gli Harlem Globetrotters. Lì il suo gesto classico acquisirà l’alone di leggenda, non potendo schiacciare all’università raffina un movimento in cui con il braccio in massima estensione spezza il polso lanciando la sfera, l’altezza da cui parte il tiro è tale che diventa impossibile fermarlo.

Il cronista dei Bucks Eddie Doucette ribattezzerà la mossa Sky-Hook, per gli italiani “gancio-cielo”. Nel suo secondo anno guida i Milwaukee alla vittoria del titolo, successivamente cambia nome perché convertitosi all’Islam diventa Kareem Abdul Jabbar, la provincia americana ora gli sta stretta chiede di potersi trasferire a New York o Los Angeles, i californiani hanno la meglio alla corsa al centro più dominante dell’epoca. Affianco a lui la fortuna vuole proprio che nel 1979 i Lakers abbiano la possibilità di scegliere per primi al draft. Viene selezionato Earvin Johnson Jr. caratterialmente è l’opposto di Kareem, sempre sorridente, fortemente emotivo, dopo la prima vittoria in una partita NBA salta per la felicità al collo del compagno più grande, che gli dice: “fermati Magic, ci sono da giocare ancora 80 partite.” Esatto Magic, molti lo conosceranno per il suo nickname, la mamma cristiana cattolica originaria di Trinidad & Tobago non era molto d’accordo con questo soprannome, ma ormai già tutti lo chiamavano così. L’idea venne ad un giornalista del Lansing State Journal, Fred Stabley Jr. che non sapeva come appellare il giovane poiché Doctor J già esisteva (era Julius Erving) ed anche The Big E (Elvin Hayes). Una carriera universitaria nel suo stato, il Michigan, al Michigan State University, per non allontanarsi da casa, nonostante l’interesse proprio di UCLA e di Indiana University. Nel suo anno da rookie perde solo contro i futuri campioni di Kansas, la NBA vive momenti problematici, manca un personaggio carismatico che possa essere il simbolo della lega e lui con il suo sorriso a trentadue denti è l’indiziato numero uno tra i giovani americani per questo ruolo, i General Manager del campionato lo vorrebbero subito come professionista, ma lui non vuole lasciare l’università prima di aver vinto nel suo Stato e così è, nel suo anno da sophmore arriva il titolo NCAA, poi l’anticipato draft del 1979. Non è assolutamente il classico playmaker, è alto 2.06 cm, ma le sue mani trattano troppo bene la palla e così viene utilizzato nel ruolo di uno. E’ il primo rookie ad essere nel quintetto titolare di una squadra all’All Star Game, con Jabbar porta dopo sette anni i Lakers in finale, c’è Philadelphia, ad un match dalla vittoria finale si infortuna proprio il capitano, negli spogliatoi molti senatori sono distrutti, pensano che la loro occasione senza il centro titolare sia persa, il rookie allora prende in mano la situazione, con la sua stazza va a saltare per la palla a due e poi gioca in tutti i ruoli, dal centro al playmaker. I Lakers sono di nuovo campioni, ma lo showtime non è ancora iniziato, la squadra non gioca bene come Magic vorrebbe ed il playmaker minaccia di trasferirsi. Così Buss licenzia Paul Westhead che era diventato da vice allenatore a coach dei Lakers dopo che il primo allenatore Jack McKinney inseguito ad un incidente era in coma e affida la sua franchigia a Pat Riley, oggi presidente dei Miami Heat. E’ un matrimonio perfetto, le idee di Riley si sposano alla perfezione con gli uomini giallo viola, lo showtime si basa su forti accelerazioni in contropiede, sfruttando i rimbalzi di Jabbar, Rambis e Green, per servire subito Johnson in grado di segnare o di servire compagni meglio piazzati, un’evoluzione del run & gun di Westhead con Magic impegnato in ogni possesso di palla. I Lakers sono belli da vedere, nasce il loro mito, in dieci anni arriveranno in finale otto volte e vincono il titolo in cinque di queste. Ma non ci sono eroi senza antagonisti, torna di moda infatti la rivalità con i Boston Celtics, nata negli anni ’60, decennio in cui Lakers e Celtics disputarono sei finali tra di loro, con i Californiani sempre sconfitti. Se vent’anni prima la sfida chiave era Russell-Chamberlain, negli ’80 è Magic-Bird, l’America si divide, alcuni preferiscono l’afroamericano del Michigan dal sorriso smagliante, altri scelgono il bianco dell’Indiana. I due se le danno in campo, ma fuori sono amici, Bird anni dopo confesserà che molte sere dopo gli allenamenti aveva pensato al fatto che Magic poteva allenarsi più tempo di lui ed era così tornato in palestra ad allenarsi. I Lakers dello showtime arrivano in finale otto volte, tre delle quali contro i Celtics: il bilancio sarà di due vittorie ed una sconfitta. Vinceranno il titolo cinque volte in dieci anni, oltre alle due finali contro la squadra del Massachusetts ci sono anche la vittoria con Westhead in panchina dell’80 contro i Sixers, bissata due anni dopo e la vittoria del 1988 contro i Pistons. I Bad Boys di Detroit sono però il nuovo che avanza e l’anno successivo si prendono la rivincita, la finale del 1989 è il canto del cigno di Kareem Abdul Jabbar che poi si ritirerà, ad oggi è il miglior realizzatore ogni epoca con  38,387, terzo miglior rimbalzista della storia e terzo anche nella classifica storica per stoppate. Nel 1991 si ritirò anche Magic, ma non per sua volontà, ma per combattere una malattia grave che minava la sua sicurezza e quella di compagni ed avversari, il 7 Novembre 1991 in conferenza stampa mondiale ammise di essere sieropositivo. Tornò per due volte, nel 1992, votato dal pubblico per giocare l’All Star Game non si poté esimere dal riallacciare le scarpe da basket, trovandosi ancora in forma fu convocato con il Dream Team, la squadra più forte della storia, con gli USA che per la prima volta mandarono alle Olimpiadi i migliori professionisti dell’epoca, Magic finalmente poté giocare fianco a fianco con Larry Bird, fu un praticamente il passaggio di testimone tra i due ed il cestista più forte di sempre, Michael Jeffrey Jordan. Di ritorno in America con la medaglia d’oro Magic decise che avrebbe potuto ancora giocare, in preseason però notò la preoccupazione negli occhi di compagni ed avversari, così decise di ritirarsi nuovamente. Nel 1996 poi sull’onda del primo ritorno in campo di Michael Jordan vestì nuovamente la maglia 32 gialloviola, ma solo per 36 partite. Per entrambi i Lakers costruirono una statua, posta all’esterno dello Staples Centre e tutti e due furono omaggiati con il ritiro della maglia. Pat Riley invece vinse ancora, nel 2006 con i Miami Heat, ma senza Jabbar e Johnson non ci fu più lo showtime che rese i Lakers la squadra più amata e bella degli anni ’80.

di Francesco De Felice

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