NBA. Si ritira Steve Nash, uno dei più forti senza l’anello
Si è ritirato ufficialmente sabato, ma la notizia circolava già da ottobre. Steve Nash, all’ultimo anno di contratto con i Los Angeles Lakers e a 41 anni,m si è dovuto arrendere. Troppo il dolore alla schiena che gli ha impedito di scendere sul parquet per tutta la stagione. Il suo calvario era iniziato qualche anno prima, quando una microfrattura alla gamba sinistra gli ha danneggiato un nervo, rendendogli dolorosi molti movimenti. Passerà nella storia come uno dei migliori a non aver mai vinto un’anello, come Charles Barkley, come John Stockton e come Karl Malone, che però hanno vinto almeno una medaglia d’oro olimpica con il Dream Team a lui anche questa gioia è stata preclusa.
Figlio di un calciatore, non ha mai nascosto la passione per il calcio, grande tifoso del Tottenham, suo fratello avrà anche modo di giocare per gli Hotspurs e lui avrebbe forse volentieri barattato la mediocre carriera del fratello con la sua, tutto i nome dell’amore per il calcio. Il papà, come detto calciatore professionista, era un giramondo, quando Steve nacque era impegnato nella Premier League sudafricana. Il futuro cestista nasce così a Johannesburg, ma il padre non vuole che i suoi figli crescano nel paese dell’apartheid e così si trasferiscono in Canada, nello stato della British Columbia a Vancouver. Il piccolo Nash eccelle negli sport, in qualsiasi sport, gioca ovviamente a calcio nel ruolo di mezzala, è per tre volte campione provinciale di scacchi, è un buon centro nello sport nazionale canadese l’hockey, tanto che si dice possa essere un futuro prospetto per la NHL (National Hockey League, l’equivalente della NBA per l’hockey su ghiaccio) ed è anche capitano della squadra di rugby.
A dodici anni l’amore per la pallacanestro e soprattutto per la NBA, si concentra sullo sport con la palla a spicchi, ma già alla high school sa che buona parte delle sue chance le avrà solo se riuscirà ad ottenere una borsa di studio in America, perché il livello del college basket canadese è troppo basso. Lui ama il suo paese, tanto da giocare un’Olimpiade per la nazione della foglia d’acero, ma non può non andarsene dal Canada per seguire il suo sogno. I talent scout non vanno mai a vedere le partite della sua high school, così lui ed il suo allenatore dell’epoca registrano una videocassetta con le sue migliori giocate, ma nessuna grande Università si fida, le sue esibizioni sembrano troppo finte ed inoltre in ogni highlights non affronta mai avversari atletici come gli afroamericani. Il suo sogno però si realizza, un solo allenatore va a vederlo, è di un università minore, Santa Clara sulla baia di San Francisco d’ispirazione gesuita.
Steve nei suoi anni universitari porterà questo piccolo ateneo al campionato NCAA per tre volte su quattro partecipazioni. Il draft a cui partecipa è tra quelli più ricchi di talento, come scelta numero 1 i 76’ers eleggono Allen Iverson, che li trascinerà ad una finale NBA, verranno inoltre chiamate altre otto All Star, tra cui Kobe Bryant vincitore di cinque anelli, Shareef Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker, Predrag Stojakovic, Jermaine O’Neal, Zydrunas Ilgauskas e lui Steve Nash, come quindicesima scelta. Se lo aggiudicano i Suns, ma a Phoenix c’è già un playmaker esperto ad oscurarlo, è Jason Kidd, così dopo due anni viene ceduto ai Dallas Mavericks, lì arriverà un nuovo presidente, Mark Cuban intenzionato a spendere per portare in Texas un titolo. Steve conosce così uno dei suoi futuri migliori amici Dirk Nowitki, gli piace il tedesco, perché con lui può parlare di calcio, organizzare serate per vedere in Tv partite di Premier League e ci si confessa sulla possibilità di non riuscire a sfondare nella lega più conosciuta al mondo.
Con il giusto lavoro però, seguiti da una vecchia volpe di questo sport come coach Don Nelson, esplodono entrambi, tanto da venir convocati per l’All Star Game. Nel 2000 trascinano Dallas ai playoff, dove vengono fermati dai San Antonio Spurs, l’anno dopo succede lo stesso, l’altra squadra del Texas sta aprendo la sua dinastia guidata da Tim Duncan, Anthony Parker e Manu Ginobili e la maledizione continua, questa volta si arriva al derby texano in finale di conference, ma anche in questo caso la spuntano i nero grigi che poi saranno campioni NBA. Nel sesto anno con i Dallas sulla strada dei playoff sono i Kings a fermare i Mavericks, Steve deve rinnovare il contratto, ma Cuban per via del salary cap può mantenere solo una delle sue stelle, punta su Dirk ed a Steve offre “solo” 32 milioni, i Suns allora tornano ad incrociare i loro destini con Nash perché propongono un contratto da 63 milioni per sei stagioni.
Eppure Steve non è convinto, non ha mai dato troppo peso ai soldi, chiede così ai GM dei Dallas di pareggiare l’offerta della franchigia dell’Arizona, non viene accontentato. Per avere il si del playmaker canadese i Suns mandano il nuovo allenatore Mike D’Antoni insieme alla star del team Amar’e Stoudemire a parlare con il 13 dei Mavericks. La chiacchierata con coach D’Antoni tranquillizza Nash, l’idea è quella di giocare “run & gun”, questa tecnica esalta le doti atletiche di Steve Nash vera e propria mente della squadra, i Suns dopo una stagione da penultimi nella Western Conference sono la squadra con il miglior record NBA, lui viene premiato come miglior giocatore della lega, ma ancora una volta in finale di conference sono gli Spurs ad avere la meglio sul canadese. L’anno dopo nel 2006 Steve dovrà accontentarsi di vedere il titolo finalmente a Dallas, i Mavricks battono in finale i Big Three di Miami, Nowitzki è la stella della squadra, Steve si complimenta, ma dentro di se è dispiaciuto per non aver vinto l’anello con l’amico tedesco, inoltre come una beffa per le ottime prestazioni, è il miglior assistman e tiratore di tiri liberi del campionato americano, viene premiato nuovamente come MVP della NBA. Nei due anni successivi la corsa al titolo verrà fermata nuovamente dagli Spurs ai playoff. Dopo questa delusione i Suns sollevano dall’incarico D’Antoni, nell’anno successivo all’era dell’italoamericano si susseguono in panchina Terry Porter ed Alvin Genter, il “gun & run” non c’è più ed anche le prestazioni di Nash calano, Phoenix non arriva neanche ai playoff per la prima volta da quando Steve fa parte della squadra. L’anno dopo però i Suns torneranno ai playoff, usciti ancora in uno scontro con gli Spurs per la squadra dell’Arizona quella stagione si rivelerà un fuoco di paglia perché i Suns dalla stagione 2009-2010 non sono più tornati ad essere tra le migliori otto ad Ovest.
Per Steve è arrivato il momento di un nuovo trasferimento, si fanno avanti New York e soprattutto Toronto rimasta l’unica squadra canadese a giocare in NBA dopo che i Grizzlies si sono trasferiti a Memphis da Vancouver nel 2001. Ma a Nash la buona sorte sembra aver girato le spalle i problemi si moltiplicano anche fuori dal parquet, si separa infatti dalla moglie e pur di rimanere vicino ai tre figli si trasferisce ai Los Angeles Lakers. Oltre alla vicinanza con la famiglia, che si trova in Arizona, vestire la maglia gialloviola vuol dire avere un compagno come Kobe Bryant, lottare per il titolo e trovare nuovamente come coach Mike D’Antoni. Gli anni però si fanno sentire e Nash giocherà solo 65 partite in 3 anni per i Lakers, qualche giorno fa la lettera con cui ha salutato lo sport giocato, di cui riportiamo un piccolo estratto, forse il più significativo:
“Mi ritiro. Qualcuno una volta ha detto che arriva per tutti il giorno in cui ci dicono che non possiamo più giocare. Non siamo abbastanza bravi. Forse siamo troppo lenti. Quando sei un adolescente con sogni grandissimi e un’ossessione crescente, e qualcuno di dice che non durerà per sempre, è spaventoso. Non l’ho mai dimenticato. Quindi, cosa ho fatto? Sono rimasto ossessionato. Mi sono dato degli obiettivi. Ho lavorato. Sognato. Mi sono spinto oltre il quello che era normale o previsto. Ho guardato al mio eroe, Isiah Thomas, e mi sono detto: “Ok, non sono minimamente vicino ad essere come lui, ma se miglioro ogni giorno per 5 o 10 anni, perché non posso essere bravo quanto lui?[…] Non giocherò mai più a basket. Questo gioco mi manca già tantissimo, ma sono allo stesso tempo davvero felice di poter imparare a fare altro. Ho scritto questa lettera per tutti quelli che hanno seguito la mia carriera. Voglio parlare a tutti quei ragazzini in giro per il mondo, che non hanno idea di cosa il futuro abbia in serbo per loro o come trovare il loro posto nel mondo. Quando penso alla mia carriera, non posso fare a meno di pensare a un ragazzino che si innamora del suo pallone. Io mi identifico ancora in lui, e l’ho fatto per tutta la mia storia“.
Rimarrà comunque una mosca bianca nell’universo NBA di cui sentiremo la mancanza, mai sopra le righe, pensatore appassionato di filosofia e grande amante del calcio, una perdita per la lega più importante del mondo e per lo sport in generale.
Di Francesco De Felice