Miele – Storia dolce di una morte amara
di Annalisa Gambino
Valeria Golino ha portato al Festival di Cannes, nella sezione An certain regard, il suo primo film da regista, Miele, in Italia in sala già da due settimane. Non poteva avere una migliore collocazione la Golino: il film infatti è uno sguardo inconsueto e marcato che colpisce non solo visivamente ma anche sotto il profilo narrativo.
Miele è la storia di Irene (Jasmine Trinca) una studentessa di medicina fuori corso adesso impegnata ad agevolare la morte nel modo più dolce possibile. Il titolo gioca infatti sullo pseudonimo di Miele, nome in codice con il quale la giovane si presenta agli aspiranti suicidi. La regista porta alla ribalta un tema scottante, precedentemente affrontato da Bellocchio in La bella addormentata – quello dell’eutanasia.
L’aspetto innovativo, ciò che colpisce di Miele, è la presentazione della protagonista. Irene è una figura a suo modo emarginata e complicata. Incapace di rapportarsi con il mondo ”dei vivi”, stringe con più facilità legami con i suoi clienti, se così possono essere definiti. La routine della donna è scandita dall’incontro con i malati e dai continui viaggi in Messico, dove si procura il Lamputal (farmaco per uso veterinario letale ed illegale in Italia) da somministrare ai pazienti. Irene, sballottata tra itinerari internazionali e nazionali, vittima e carnefice, ha imparato a convivere con il suo senso di colpa interpretando il ruolo del boia e della presunta studentessa.
Ad ogni modo il film insiste sul piano della scelta etica. Dramma esistenziale di una donna che, dietro alle condivisibili contraddizioni morali, nasconde un forte malessere interno. Ricorrono spesso scene in cui le manca il respiro, sott’acqua mentre nuota o in bicicletta mentre sfreccia per Roma. L’impressione è quella di una sempre più ostentata in-abilità alla vita, nel tentativo di non riflettere e di non farsi soggiogare dai pensieri. L’evento cruciale che porta all’estremo queste considerazioni è l’inaspettato incontro con il signor Grimaldi che vuole morire senza avere nessuna malattia in particolare. Tra l’uomo e la ragazza nasce da prima un conflitto e poi una spontanea amicizia. A traghettare la pellicola nell’atmosfera del noir esistenziale è il finale agghiacciante di cui si fa protagonista Grimaldi.
La Golino sceglie di raccontare la morte senza mai di fatto farla vedere e fa trapelare la propria posizione favorevole nei confronti dell’eutanasia evitando tuttavia di suscitare inutile polemica. Al contrario sprona lo spettatore a riflettere sull’attuale e controversa tematica. Miele ha l’intelligenza di ruotare intorno al dibattito sociale lasciando tuttavia agitare narrativamente il solo animo di Irene.
Lo stile di regia è sporco, ricorrono spesso netti stacchi di montaggio, inquadrature storte e punti di vista inconsueti. Suggestivi sono i piani fissi sul volto dell’attrice capaci quasi di penetrare attraverso la facciata dell’angelo della morte per andare a colpire il suo cuore fragile e solitario. Interessante la scelta di una colonna sonorache stordisce letteralmente lo spettatore. Il volume sempre più alto dell’ipod di Irene è usato come filtro, come se alzando il volume il pubblico potrebbe non sentire il pianto doloroso delle vite dei personaggi della storia.